Beethoven: Sonate per violino e pianoforte

BEETHOVEN
Sonate per violino e pianoforte

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File A: Sonata in re maggiore op.12 n.1
Allegro con brio – Tema con variazioni – Rondò allegro

File B: Sonata in la maggiore op.12 n.2
Allegro vivace – Andante piuttosto allegretto – Allegro piacevole

File C: Sonata in mi bemolle maggiore op.12 n. 3
Allegro con spirito – Adagio con molta espressione – Rondò allegro molto

Fine D: Sonata in la minore Nr 4 opera 23
Presto – Andante scherzoso più allegretto – Allegro molto

File E: Sonata in fa maggiore opera 24 “La primavera
Allegro – Adagio molto espressivo – Scherzo – Rondò allegro ma non troppo

File F: Sonata in la maggiore op.30 n.1
Allegro – adagio molto espressivo – Allegretto con variazioni

File G: Sonata in do minore op.30 n.2
Allegro con brio – Adagio cantabile – Scherzo – Finale allegro

File H: Sonata in sol maggiore op.30 n.3
Allegro assai – Tempo di minuetto ma molto moderato e grazioso – Allegro vivace

File I: Sonata in la maggiore op.47 ” a Kreutzer”
Adagio sostenuto. Presto – Andante con variazioni – Finale. Presto

File L: Sonata in sol maggiore op.96
Allegro moderato – Adagio espressivo – Scherzo – Poco allegretto

Beethoven intraprese la composizione delle sue prime Sonate per violino e pianoforte relativamente tardi, e sole dopo essersi cimentato nelle due imponenti Sonate per violoncello e pianoforte dell’op. 5, d’incomparabile importanza per quanto riguarda l’evoluzione del linguaggio beethoveniano nell’ambito del genere cameristico per pianoforte e strumenti. Scritte poco prima del 1799, l’anno della loro pubblicazione, le tre Sonate op. 12 furono dedicate a Salieri, il maestro italiano cui Beethoven si sentiva debitore di consigli più o meno utili in materia di stile vocale e teatrale. I soli modelli presi in considerazione da Beethoven furono quelli mozartiani, poiché soltanto Mozart aveva detto una parola decisiva in questo campo, lasciando una serie di capolavori nei quali pianoforte e violino dialogano modernamente con parità d’importanza nell’ambito di una dialettica squisitamente concertante. Nelle tre Sonate dell’op.12 Beethoven non fece che portare tali modelli al massimo sviluppo. Si può anzi affermare che, ad eccezione della monumentale e sotto molti aspetti, rivoluzionaria Sonata a Kreutzer, tutte le altre Sonate beetheveniane per pianoforte e violino, non esclusi capolavori come l’op. 96, non si discosteranno di molto da questa linea, assai più cauta e tradizionalistica di quella seguita, per esempio, dalle sonate per pianoforte e violoncello (per non parlare di quelle per pianoforte sole). La soggezione a Mozart si manifesta, nell’op. 12, anche nella persistente fedeltà a stilemi caratteristici come quelle d’iniziare l’ultimo tempo a mo’ dl finale da concerto, con l’enunciazione del tema compiuto dal solo pianoforte. Nelle Sonate op. 12 l’inconfondibile colpo di pollice beethoveniano é pero presente ovunque: nel vigoroso tema iniziale del primo tempo, e in quelle e Rondò della brillante Sonata in re maggiore, che, per contro, ha come secondo movimento un Andante con quattro elementari variazioni di una simmetria strutturale e di un candore melodico che fanne pensare ad Haydn. Se la prima Sonata della serie si può considerare un brillante pezzo da concerto, caratterizzato da una generica euforia ritmica e tematica, la seconda, in la maggiore appare già come qualcosa di totalmente diverso fin dalle prime battute dell’Allegro vivace, nelle quali il violino, con una trovata stravinsklana ante litteram, accompagna umoristicamente a guisa di chitarra il capriccioso disegno del pianoforte. Per tutto il pezzo pianoforte e violino cercano di contraffarsi vicendevolmente nelle rispettive caratteristiche tecniche e timbriche, con una serie inesauribile dl trovate la cui novità spiacque alla Gazzetta universale dl Lipsla, che accusò Beethoven di non sapere usare con proprietà gli strumenti. L’Andante piuttosto Allegretto, una breve elegia in la minore, e l’Allegro piacevole conclusivo che accomuna le caratteristiche delle scherzo con quelle del Finale, ribadisce il carattere estroso e assai personale di questa Sonata. Nel primo tempo della terza Sonata della serie, in ml bemolle maggiore, Beethoven ritorna alle stile brillante, mentre l’Adagio col sue grave incedere neoclassico, sembra la parafrasi strumentale di un’aria del Cherubini più togato. Il rondò, col suo fresco tema alla Mozart e l’iridescente dialogo dei due strumenti è il migliore dei tre movimenti e fa gravitare su di se il peso dell’intera opera.
Le Sonate op. 12 furono ben presto seguite da altre due, dedicate al conte Moritz von Fries, uno tra i più attivi mecenati del Maestro. Apparse originariamente riunite sotto il numero d’opera 23, le due nuove Sonate, in la minore e fa maggiore, entrarono in seguito nel catalogo beethoveniano come op. 23 e 24. Dietro caratteristiche formali pressoché immutate, tali lavori presentano una impronta più personale, rilievi più vividi e spiccati. Ciò e particolarmente vero per l’op. 23 che ha inizio con un Presto in ritmo dl giga, dalla tinta (come avrebbe detto Verdi) stranamente oscura e selvaggia, e continua con un Andante scherzoso, più Allegretto dall’incipit quasi schumanniano contenente episodi polifonici d’un leggiadro umorismo. L’affascinante singolarità della Sonata si manifesta anche nel Finale, per il quale, se prima si era fatto il nome di Schumann, converrà fare quello di Mendelssohn ad illustrarne il carattere elegantemente patetico e concitato. Nella Sonata in fa maggiore, la celebrata Primavera, tutto appare invece più familiare e consueto, nella fluente e fin troppo ben tornita contabilità del primo tempo, in cui Beethoven tenta di emulare l’irrepetibile amabilità di certi Allegro mozartiani, come quello della Sonata K. 378. Dopo un Adagio contenente uno stupendo episodio centrale, ecco, per la prima volta, uno Scherzo, brevissimo e leggiadro, che conduce efficacemente al soave rondò sopra un tema ingenuo di canzone. II secondo trittico appare nel 1803 e riunisce sotto il numero d’opera 30 tre Sonate stilisticamente ed esteticamente assai differenti. La prima, in la maggiore, é forse la più modesta di tutte le Sonate beethoveniane per pianoforte e violino, anche se in origine aveva un Finale del tutto sproporzionato per grandiosità e vigore inventivo, agli altri due tempi. Beethoven se ne avvide, sostituendolo con una serie di elementari variazioni, e trovandogli più appropriata sede nella Sonata a Kreutzer. Se l’op. 30 n.1 é l’ultima delle Sonate beethoveniane per pianoforte e violino volte a un passato che lo stesso Beethoven aveva reso irrecuperabile, la successiva in do minore, è la prima a esserne quasi interamente emancipata e a costituire la prima grande affermazione del compositore in questo genere. Il suo posto è accanto alla patetica per l’eroica protervia (come ebbe a dire Busoni) del primo tempo e la tenerezza elegiaca dell’adagio cantabile. Dopo uno Scherzo conciso ed energico, il magnifico Allegro conclusivo, col suo tema struggente preparato di piena di contrasti dinamici, e il secondo grande Finale beethoveniano, dopo quello del Chiaro di luna ma, se ciò é possibile, di una tensione e ricchezza ancora maggiori. Al contrario, nella terza Sonata, in sol maggiore, tutto e amabilità, serenità e umorismo: tuttavia, anzi, proprio per questo, essa non é meno beethoveniana della sua tragica sorella, ne meno di questa bella e importante. II Tempo di minuetto centrale non ha più nulla dl settecentesco: si tratta piuttosto di una idealizzazione, o meglio di una citazione di minuetto, esattamente come avverrà nell’ottava Sinfonia. Le ultime due Sonate videro la luce a distanza d‘anni e sono da considerare come le massime creazioni beethoveniane del genere.
La prime di esse fu composta originariamente per il violinista anglo-polacco George P. Bridgetewer che le eseguì e Vienna insieme con l’autore il 24 maggio 1803. In seguito fu dedicata e Rodelphe Kreutzer, che Beethoven conobbe in casa di Bernadotte, allora ambasciatore francese in Austria, ed apprezzò in sommo grado. Il lavoro venne pubblicato nel 1805 come op. 47 col seguente titolo: “sonata per pianoforte e un violino obbligato, scritta in uno stile molto concertante, quasi come di un concerto “. L’insistere dell’autore sul carattere “molte concertante” dell’opera, indica già chiaramente che, in essa, Beethoven andò oltre l’equilibrio e la dimensione squisitamente cameristica d’impronta mozartiana. La concezione grandiosamente concertistica delle Sonata è ravvisabile fin delle prime quattro battute dell’introduzione lenta, affidate ad eloquenti accordi del violino solo, cui fa eco il pianoforte con une risposta che s’inabissa nei più oscuri meandri dell’armonia. Il presto iniziale è di gran lunga il movimento pie importante, ricco, complesso: vi predomina l’incandescente ispirazione degli anni del volontarismo eroico beethoveniano, con in più un brivido di demonismo inquietante, di oscura passione date dall’onnipresente voce del violino “concertante”, terribilmente calda e avvincente come quella del Re degli Elfi. Mai prima d’ore la dialettica concertante era stata cosi fitta e tesa fine allo spasimo, né le scritture dei due strumenti avevano raggiunto un tale gredo di splendore virtuosistico. L’Andante, più teneramente affettuoso che introspettivo, seguito da une serie di variazioni di vecchio stile ornamentale, segue un passo indietro rispetto elle folgoranti novità del primo movimento, verso la pacata evasione lirica di certi tempi lenti delle prima stagione beethoveniana. Il Finale, che (già lo si e detto), apparteneva all’op. 30 n. 1, è come la liberazione, in un focoso ritmo di giga, delle energie tremendamente compresse nel primo Allegro. Anche le Sonata In sol maggiore, l’ultima, pubblicata nel 1816 come op. 96, fu destinata e un grande virtuoso francese, Pierre Rode, che le eseguì la sera del 4 gennaio 1813 accompagnato al pianoforte dall’arciduca Rodolfo. A differenza delle Kreutzer Sonate, esse non vuole essere un’opera importante o, come oggi si direbbe, “di rottura”. Il suo poeto ideale è accanto alla Sonata in mi minore per pianoforte op. 90 o al Quartetto in fa minore op. 95: creazioni vibranti di intima e intensa poesia, sotto le spoglie dimesse di una seconda semplicità e di un apparente disimpegno espressivo. Col passare degli anni, Beethoven ha imparato la più difficile delle lezioni che Mozart potesse ancora impartirgli: quella di sapere essere sublime e insieme normale. Per questo la piccola Sonata op. 96 supera in bellezze assoluta e equilibrio la sua grandiosa e pretenziosa sorella. In vero la luce della grazia domina da capo a fondo questo capolavoro dai contorni purissimi e dal velo leggero che si apre in tono trepidante e interrogativo si espande in un breve me intensissime Adagio seguito da un Leggiadro Scherzo col Trio simile a un Laendler, e termine con uno dei più avanzati e maturi modelli di variazione beethoveniana, in cui il vecchio procedimento ornamentale ha ceduto il posto e une metamorfosi più profonda e integrale del tema.
Giovanni Carli Ballola

Mozart: Concerti da camera K.413 K.414 K.415 K.449

Wolfgang Amadeus Mozart
Quintetti K.413/414/415/449
L.Giarbella pianoforte
Quartetto di Torino

01 Copertina

Disco 1 facciata A: Quintetto per pianoforte e archi in fa maggiore K.413
Disco 1 facciata B: Quintetto per pianoforte e archi in la maggiore k:414
Disco 2 facciata A: Quintetto per pianoforte e archi in do maggiore K.415
Disco 2 facciata B: Quintetto per pianoforte e archi in mi bemolle Maggiore K.449

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Nella primavera del 1781 Mozart, dipendente dell’arcivescovo di Salisburgo, decise di lasciare l’impiego e di stabilirsi a Vienna come libero professionista. Decisione certamente sacrosanta artisticamente e culturalmente, ed altrettanto avventata. Forse Mozart avrebbe potuto conquistarsi un suo spazio o per lo meno sopravvivere dignitosamente se si fosse adattato a fare soltanto il pianista, suonando, dando lezioni, scrivendo su commissione, facendo riduzioni ed arrangiamenti. E’ pero evidente che una simile scelta avrebbe significato una schiavitù peggiore di quella di Salisburgo. Mozart si servì dunque delle sue capacità di pianista per penetrare in un ambiente difficile ed ostico e per avere 1’occasione, vivendo a Vienna, di cogliere ogni spiraglio per attività ai lui più congeniali. Mozart ebbe dapprima fortuna. Nel 1781 trovò parecchi allievi. Alla fine dell’anno, il 24 dicembre, sostenne il confronto con Muzio Clementi, che stava dando in Europa dimostrazioni di una tecnica virtuosistica inaudita. Non e il caso di ripercorrere qui la storia della tenzone Mozart-Clementi: basti dire che Mozart fu considerato alla pari con il rivale e che, partito Clementi, non ebbe a Vienna altri competitori della sua statura. Mozart si mosse comunque con molta prudenza e con molto tatto. Dopo un primo, concerto il 3 aprile 1781, e dopo un concerto in casa di un’allieva, per il vero e proprio debutto, il 3 marzo 1782, scelse un suo concerto già molto ben collaudato, che 1’adattò al gusto dei viennesi. Il 26 maggio 1782 apparve di nuovo in pubblico e il 13 novembre suonò di nuovo in casa del1’allieva, Josephine von Aurnhammer, che sapeva raccogliere un piccolo pubblico di gente importante. Visto il successo, Mozart decise di calare una carta più grossa: il 5 gennaio 1783 il Wiener Diarium annunciava che il Signor Kapellmeister Mozart aveva pronti tre nuovi Concerti e che li avrebbe ceduti in copie manoscritte a chi avesse sottoscritto una prenotazione al prezzo di quattro ducati. Non sappiamo quale fosse l’esito dell’annuncio: risulta solo (lettera alla baronessa von Waldstiidten, del 15 febbraio) che la sottoscrizione andava “tanto lentamente “. Sappiamo che Mozart suonò il Concerto K 415 e il Rondò K 382 l’11 marzo, in un concerto della sua cognata ed ex fiamma Aloisia Weber Lange: era presente Gluck, che invitò a pranzo i due concertisti. Il 23 marzo, presente l’imperatore Giuseppe II, Mozart suono il Concerto K 175 (con il Rondò K 382 come finale) e il Concerto K 415. Il 30 marzo, presente di nuovo Giuseppe II, altra esecuzione del Concerto K 415. Non sappiamo con certezza se e quando furono presentati gli altri due concerti, e non sappiamo quale dei suoi concerti Mozart eseguì in un concerto del dicembre 1783. Le speranze di Mozart furono comunque coronate dal successo. Mozart, che nel 1782 si era anche sposato e che continuava nella rischiosa avventura della libera professione, doveva aver molto meditato prima di impegnarsi in un’impresa che comportava un sia pur modesto investimento di denaro. Per coprire le spese ed avere un utile bisognava interessare e divertire il pubblico senza stancarlo, presentare musiche diverse tra loro ma tutte ugualmente piacevoli e, alla fine, vendere la nuova produzione agli editori. Scrivendo al padre il 28 dicembre 1782 Mozart diceva: “ Questi Concerti sono un buon medium tra ciò che è troppo facile e ciò che è troppo difficile: sono molto brillanti, piacevoli all’orecchio, e naturali senza essere insipidi. Ci sono qua e là passaggi da cui i conoscitori possono cavare la loro soddisfazione; ma questi passaggi sono scritti in modo che i meno colti non possono non essere contenti, senza sapere il perché. Sic fretus, Mozart tiro diritto fino a dichiarare, nell’annuncio del Wiener Diarium e in una lettera all’editore Siéber di Parigi, che i tre Concerti potevano essere eseguiti “a quattro “, cioè con il solo quartetto d’archi, com’era d’uso nel concerto rococò: affermazione che si può condividere per il Concerto K 413 e anche per il 414, ma che pare dettata da un entusiasmo un po’ sospetto per quanto riguarda il K 415. Comunque, si tratta di una affermazione dell’autore, su cui si possono avanzare dubbi ma che non si può contestare, e che rende del tutto legittima la verifica dell’esecuzione.
Il primo tempo del Concerto K 413, scritto nell’inverno del 1782/83, è stilisticamente prossimo a compositori come Johann Christian Bach o Johann Samuel Schroeter, i cui lavori per pianoforte e orchestra erano ben noti a Mozart e che godevano di gran fama in tutta Europa. I temi, che spesso ricordano il minuetto, sono gradevoli e semplici, l’armonia è lineare, la scrittura pianistica non presenta difficoltà che non siano dominabili anche dai dilettanti. Molto singolare è soltanto la prima entrata del solista, che inizia inserendosi in un piccolo canone degli archi per concludere in pratica l’esposizione (ecco un punto in cui il conoscitore trova la sua soddisfazione, mentre il non conoscitore e sorpreso e contento senza sapere il perché). Lo sviluppo, ad evitare l’eccesso di placidità e di grazia, e quindi quel tanto di zuccheroso che deriverebbe da una prosecuzione logica dell’esposizione, è insaporito da Mozart con il ricorso al modo minore. Il secondo tempo, che ricorda il tempo centrale della Sonata K 332, è una tipica pagina rococò, con melodia cantabile su basso albertino. Il finale, “Tempo di Menuetto “, è un vero e proprio minuetto, che viene frammentato con l’inserzione di nuovi episodi. Mentre in altri finali di Mozart o in concerti rococò troviamo un tema di minuetto che da origine ad un rondò, qui abbiamo un minuetto di trentadue battute esposto dagli archi e riesposto da pianoforte e archi alternati; nella seconda esposizione vengono pero inseriti episodi diversi, che spezzano il fluire del minuetto, tanto che il numero delle battute sale a settantaquattro. Questo tipo di costruzione viene mantenuto in tutto il brano e la struttura che ne consegue adombra in realtà una sintesi tra i due ultimi tempi della sinfonia classica, il minuetto ed il finale. E’ da rilevare che, se lo stile è vicino al rococò, la scrittura degli archi si evolve, e che la viola, spesso addirittura assente nel concerto rococò, viene qui impegnata in funzione non di raddoppio o di riempitivo.
Se il Concerto K 413 è arcadico, il Concerto K 414 è lirico. La qualità espressiva è certamente favorita dalla tonalità di la maggiore, che sulla tastiera esige l’impiego di` più tasti neri e favorisce la posizione allungata delle dita e quindi una sonorità morbida. L` atmosfera non è pero più rococò, ma preannuncia semmai le pagine incantate della Nozze di Figaro, con un preciso accenno, nel momento più serioso dello sviluppo, all’aria del Conte. Il secondo tempo è una forma-sonata in miniatura, come Mozart usa talvolta e come anche Haydn prediligeva. Mozart non cerca la contrapposizione tra i due temi, ma il significato drammatico, beethoveniano della forma-sonata, prende ugualmente corpo perché la parte centrale, lo sviluppo, è turbato e commosso rispetto alla calma serenità delle due parti estreme. Il terzo tempo riprende in parte, ma più sentimentalmente intenerito, il carattere giocoso del Rondò K 382, scritto apposta per incontrare il gusto dei viennesi e che aveva ottenuto un successo immenso. L’unica caratteristica strutturale degna di nota è la conclusione dopo la cadenza: terminata la cadenza (Mozart ne scrisse più tardi due, di diversa lunghezza) il pianoforte non riprende il tema principale per arrivare decisamente alla fine, ma divaga come improvvisando, ed in pratica continua con una nuova cadenza sulla quale si inserisce l’accompagnamento degli archi. L’ultimo Concerto della prima serie per sottoscrizione composta da Mozart, il K 415 in do maggiore, risale all’inverno 1782/83. Nella versione originale, questo è un Concerto sinfonico, con un’orchestra comprendente, oltre al quintetto d’archi, due oboi, due fagotti, due corni, due trombe e timpani. I fiati sono però usati in funzione coloristica, non strutturale, e quindi si può capire come Mozart autorizzasse anche l’esecuzione con gli archi soli. Di carattere estroverso e brillante, il Concerto inizia con un tema marziale, e prosegue con un’esposizione cadenzata e sonora, con un unico episodio cantabile. Non é chi non veda come entri qui in scena il cosiddetto concerto militare, che con Dussek, Steibelt ed altri minori, ma anche con Beethoven e con Weber avrebbe tenuto banco fin verso il 1815. E non è chi non veda come Beethoven dovesse rimaner colpito da questa esposizione, prebeetboveniana per eccellenza. La densità e l’impegno sinfonico dell’esposizione non si riflettono però sulla scrittura pianistica. Mozart, che nel 1782 aveva composto il Preludio e Fuga K 394 e la Suite K 399, non trasporta nel campo del concerto la scrittura polifonica per tastiera, forse per non venir meno al suo programma di attenta conquista del pubblico, forse perché una scrittura polifonica del pianoforte avrebbe creato problemi gravi di rapporto con l’orchestra. Abbiamo quindi, come fu notato dal Hutchings, un Concerto in cui le idee più concettose e interessanti sono dell’orchestra, mentre il solista divaga frivolamente tra scale e passi ornamentali. L’impostazione iniziale lasciava supporre due possibilità diverse: una scrittura altrettanto densa della parte solistica, e quindi una contrapposizione tra solista e orchestra, o una piena integrazione del solista, e quindi una sinfonia con pianoforte obbligato. La scelta di Mozart non ci sembra coerente con l’impostazione iniziale perché l’orchestra cede subito il passo ad un solista che sembra non aver sentito ciò che é successo prima della sua entrata, può darsi pero che Mozart risolvesse i problemi di equilibrio espressivo e formale del primo tempo da esecutore più che da compositore, e cioè con l’edonismo del suono, sfoggiando nelle scale una qualità di suono di per sé bella (questa è del resto la soluzione di alcuni grandi interpreti mozartiani). Il suono di Mozart é argomento sul quale, evidentemente, non si possono farese non supposizioni, ma sembra improbabile che un compositore-esecutore come lui non trovasse una soluzione, sia pur provvisoria, com’é quella dell’edonismo. L’inizio della Cadenza, scritta più tardi da Mozart, con un canone strumentato in ottave sia alla mano destra che alla sinistra, ci da un’idea di ciò che avrebbe potuto essere la prima entrata del solista in coerente prosecuzione dell’esposizione. Ma in generale avvertiamo invece, ed é un dato importantissimo, la rottura dell’equilibrio rococò, senza del resto trovare ancora, tranne che in uno stupendo episodio dello sviluppo, un equilibrio nuovo. E’ tuttavia evidente che l’impostazione ideologica conciliante dell’inverno 1782/83 sta già per finire. Il secondo tempo, come il secondo tempo del Concerto K 413, ricorda il tempo di mezzo della Sonata K 332, e non presenta particolari strutturali di rilievo, con l’eccezione della coda a fantasia che introduce la Cadenza in modo graduale invece che, come di solito, ex abrupto abbiamo qui, come nel finale del Concerto K 414, un riflesso delle Fantasie del tardo 1782. Uno schizzo per un secondo tempo in do mino- re, molto drammatico, a cui il compositore rinuncio in favore del più consuetudinario Andante, ci rivela i dubbi e la circospezione di Mozart, che non poteva permettersi di perdere di vista il suo svagato pubblico viennese. I1 più originale tra i tre tempi del Concerto é il finale. La struttura é quella, normale, del rondò-sonata, ma il secondo episodio è in do minore, in tempo Adagio, e in ritmo binario semplice (la prima parte e in do maggiore, in tempo Allegro, in ritmo binario composto). L’inserzione dell’Adagio, che viene ripreso una seconda volta prima della fine, rompe l’atmosfera pastorale con una nota di malinconia inaspettata, e riequilibra sentimentalmente, come altre volte in Mozart, l’eccesso di serenità e la monotonia espressiva tanto frequenti nel rococò. Il tema principale, di tipo, come dicevamo, pastorale, è ravvivato da irregolarità ritmiche che lo caratterizzano e lo rendono, come si diceva un tempo, piccante. Incantevole la conclusione del pezzo, con le ripetizioni della testa del tema sui trilli misurati e mormoranti: Beethoven si ricorderà di questa chiusa mozartiana nel suo Concerto in si bemolle maggiore. Il grande esegeta mozartiano Alfred Einstein sollevò alcuni problemi sull’ordine di composizione dei tre Concerti. L’ordine di catalogazione stabilito dal_Koche1corrisponde ad un’ideale progressione dal più semplice al più complesso. Ma l’Einstein fece notare che il Rondò in la maggiore K 386, lasciato incompiuto da Mozart, é datato 19 ottobre 1782: siccome è probabile che questo Rondò fosse stato pensato come finale del Concerto in la maggiore pare verosimile che il Concerto in la maggiore venisse composto per primo. A favore della tesi dell’Einstein sta anche il fatto che nella prima edizione, uscita a Vienna, presso l’editore Artaria, nel 1785, l’ordine di pubblicazione vede al n. 1 il Concerto K 414 c al n. 2 il K 413; poco più tardi il catalogo Artaria elencava i tre Concerti come op. 4 (K 414), op. 5 (K 513), op.6 (K 415). L’Einstein, nella edizione da lui riveduta del Catalogo Kochel, classificò dunque i tre Concerti come 386a (invece di 414), 387a (invece di 413) e 387b (invece di 415). Classificazione che sarebbe da vedere anche in relazione con ‘altri problemi di cronologia, a cui non possiamo accennare, in questa sede: basti sapere che la classificazione secondo i numeri del Catalogo K6 che non corrisponde esattamente all’ordine cronologico di composizione. Dopo l’esperienza del 1783 Mozart preparò tre nuovi Concerti per il 1784, da eseguire durante l’inverno, o meglio, durante la Quaresima, perché in Quaresima i teatri restavano chiusi ed il pubblico… faceva penitenza con la musica strumentale. La circospezione del 1783 fu da Mozart messa in disparte: il Concerto K 449, scritto l’allieva Barbara Ployer, non è tanto difficile, i Concerti K 450 e K 451, scritti Mozart, sono al di la della portata dei dilettanti. Mozart, esponendo i risultati una ricerca virtuosistica, faceva un passo decisivo, perché non presentava solo musiche sue che altri avrebbero potuto suonare in casa, ma presentava anche sé stesso. Il rovesciamento ideologico compiuto e Mozart, in questo senso, si allineava sulle posizioni di Clementi. Il primo Concerto della nuova serie, K4 terminato il 9 febbraio, fu eseguito da Mozart il 17 marzo e da Barbara Ployer il 23 marzo. Il Concerto in mi bemolle maggiore, come scrisse Mozart al padre il 26 maggio, “ é d’un genere tutto speciale, pensato piuttosto per piccola che per grande orchestra “. In realtà, aderendo per l’ultima volta agli usi correnti, Mozart scrive un concerto con orchestra formata da soli archi con due oboi e due corni ad libitum. Questa concessione non diventa però adesione al gusto dominante: basta gettare un’occhiata sull’inizio del primo tempo per capire che paesaggi del rococò, dopo la crisi rappresentata dal Concerto K 415, sono perduti per sempre. L’inizio del primo tema, non armonizzato, non stabilisce una precisa tonalità: il mi bemolle maggiore, il do minore, il si bemolle maggiore sono toccati e non affermati, poi viene toccato il minore, e solo alla fine del primo periodo prevale il mi bemolle maggiore. Il tema transizione parte dal do minore, e tutta l’esposizione è inquieta e drammatica, ed animata da un discorso polifonico densissimo. Il superamento del rococò non avviene alla riproposta del barocco né come nel concerto K 415, con procedimenti contrappumtistici tra il neobarocco e la citazione erudita. Una polifonia di nuovo tipo, messa punto nelle sinfonie (l’ultima delle quali Sinfonia di Linz K 425, composta all’inizio del novembre 1783) si impadronisce anche della forma del concerto, rovesciandone connotazioni ideologiche: il concerto mozartiano tenderà d’ora in poi ad essere uno sinfonia con pianoforte obbligato o secondo la paradossale affermazione di Ludwig Spohr, un concerto per fiati con accompagnamento di pianoforte. Con il Concerto K 449 ha dunque inizio una seconda maniera mozartiana o, come diceva pittorescamente Pietro Lichtenthal una “seconda specie” di concerto: “la seconda specie” fu da lui stesso creata in tale perfezione quale non sussisteva né prima né dopo di lui. Questi concerti costituiscono i soliti tre tempi, ma elaborati; l’intera orchestra con tutti gli strumenti vi sono obbligati, predominando ognora il pianoforte. Questa é la specie più nobile e più artificiale, ed alcuni di questi concerti palesano tanta grandezza di sentimento e di profondità, che vengono paragonati meritatamente ad altrettanti drammi lirici” (P. Lichtenthal, Mozart e le sue creazioni, Milano 1842). Per dare un’idea del tematismo sinfonico mozartiano analizzeremo brevemente la costruzione del primo tema. La dimensione e di sedici battute, suddivise per multipli di due e di quattro. Le battute 1 e 2 contengono il nucleo tematico generatore, formato dall’intervallo di terza minore discendente; nelle battute 3 e 4 l’intervallo è rovesciato (terza minore ascendente) e “ riempito” con un suono intermedio; la battuta 5 riprende, un tono sotto, la battuta 3; la battuta 6 riprende ed amplia l’unico suono della battuta 4, coprendo l’intervallo di terza maggiore; la battuta 7 riproduce con una lieve modificazione la battuta 6, un tono sopra; la battuta 8 conclude il primo periodo e da inizio ad un contrappunto nuovo; le battute 9-12 sono identiche alle battute 5-8, ma con sovrapposto il seguito del contrappunto iniziato alla battuta 8; le battute 13 e 14 sono identiche, con solo una minima variante, alle battute 11 e 12; le battute 15 e 16 sono identiche alle battute 13 e 14, con una modificazione finale che porta alla tonalità di do minore. Non analizziamo la dinamica e la densità, che introducono altri elementi di variabilità. E’ pero evidente, ci sembra, il carattere essenziale della costruzione, é cioè il concetto di variazione di un modulo, di un nucleo generatore. La prima entrata del pianoforte non smentisce l’introduzione. Il pianoforte inizia con il primo tema (non, come nel K 415, con una divagazione tutta sua) e continua con coerenza, anche se il rapporto sinfonico so- lista-orchestra non raggiunge ancora il grado di maturità che toccherà tra breve. Una monumentale Cadenza corona questo primo tempo teso e vario, che inaugura vera- mente una “nuova maniera” mozartiana. Nel secondo tempo, in forma-sonata, l’inserimento del pianoforte in orchestra é anche più stretto, e la Versione per pianoforte e archi soli lascia presagire le soluzioni cameristiche e concertanti del primo Quartetto, K 478, per pianoforte e archi; lo sviluppo tocca tonalità molto lontane dalla tonalità di base (si bemolle maggiore), rinnovando l’instabilità tonale del primo tempo. Una incantata coda lega emotivamente il secondo e il terzo tempo, amplissimo rondò che si conclude con una ripresa del tema principale variata e in ritmo diverso, secondo un modulo frequente in Mozart, e che verrà ripreso volentieri anche da Beethoven.
PIERO RATTALINO

Bach: Goldberg variationen

Wilhelm Kempff, piano

Scarica le variazioni Goldberg di Bach

Le Variazioni Goldberg, BWV 988, sono un insieme di un’aria e 30 variazioni per clavicembalo di Johann Sebastian Bach. Pubblicato la prima volta nel 1741, come il quarto di una serie chiamata Bach Clavier-Ubung, “la pratica tastiera”, l’opera e’ considerata uno

degli esempi piu’ importanti di forma variante.
Prende il nome da Johann Gottlieb Goldberg, che potrebbe essere stato il primo esecutore.
Piuttosto insolita per le opere di Bach, le
variazioni
Goldberg sono state pubblicate nel corso della sua vita, nel 1741.
L’editore e’ stato l’amico di di Bach Balthasar Schmid di
Norimberga.
Dopo una dichiarazione dell’aria all’inizio del pezzo, ci sono
trenta variazioni. Le variazioni non seguono la melodia delle arie,
ma piuttosto usano la sua linea di basso e di progressione di accordi.
A causa di questo il lavoro sembra essere un ciaccona – con
la differenza che il tema di una ciaccona e’ di solito solo quattro
battute, mentre aria di Bach si articola in due sezioni di sedici
battute ciascuna ripetuta.
L’opera fu composta per due clavicembalo manuale (vedere la
tastiera musicale).
Variazioni 8, 11, 13, 14, 17, 20, 23, 25, 26, 27 e 28 sono
specificati nel punteggio per due manuali, mentre le variazioni 5,
7 e 29 sono specificati come riproducibili con uno o due.
Con maggiore difficolta’, il lavoro puo’ comunque essere riprodotto su un unico manuale di clavicembalo o pianoforte.
Tutte le variazioni in sol maggiore,
a parte le variazioni 15, 21, e 25, che sono in sol minore.
Molte delle variazioni sono binari in forma, che e’,
una sezione A seguita da una sezione B.

About

Un giorno, mentre riordinavo la soffitta, mi ritrovai tra le mani la collezione di dischi di mio padre. Leggendo una per una le numerose copertine cartonate, mi resi conto che avevo tra le mani una vasta raccolta di opere più o meno rare, un piccolo tesoro per ogni appassionato musica classica.
Non potei far a meno di riflettere sul curioso contrasto tra quegli oggetti seppur affascinanti, grandi, ingombranti e la comodità offerta dalla nuova tecnologia digitale, senza tralasciare l’imparagonabile qualità che questa è in grado di offrire. Mi è venuta così l’idea di convertire tutta quella musica dal formato analogico a quello digitale, in modo da poter metterla a disposizione tramite internet a tutti gli amanti e a coloro che si vogliono avvicinare a tale genere.
La musica, specialmente quella classica, deve essere libera, tutti devono poterne usufruire. Puoi liberamente scaricare i brani che inserisco. Se credi puoi lasciarmi un piccolo contributo di 5 o 10 euro per il tempo che mi impegna questa iniziativa usando i bottoni appositi ma ritieniti libero di scaricare tutto quello che vuoi. Quello che ti chiedo è un commento su downloadclassica@gmail.com con idee, critiche, suggerimenti riguardo questa iniziativa.
Ho creato anche una mailing list, avrei piacere ogni settimana circa di mandarti una mail per dirti quale disco della raccolta di mio papà ho riversato in mp3 con più dettagli possibili. Molto spesso non si tratta di singoli dischi ma di raccolte formate da 4 o più dischi. Se mi lasci il tuo nome (non serve il cognome) potrai scaricare fuori raccolta il concerto per piano e orchestra n.1 in fa maggiore K37 di Mozart.

In ogni caso ti saluto

cordialmente e ti ringrazio.

Giovanni.