Beethoven: Sonate per pianoforte e violoncello

Beethoven: Sonate per pianoforte e violocello
Opera completa

Sonate fur klavire und violoncello F-dur op.5 Nr.1

Sonate fur klavire und violoncello g-moll op.5 Nr.2

Sonate fur klavire und violoncello C-dur op.102 Nr.1

Sonate fur klavire und violoncello D-dur op.102 Nr.2

Seven variations on the duet “Bei Mannern, welche fuhlen”
From the opera “The magic Flute” by W.A.Mozart

Twelve variations on a theme from the Oratorio “Judas Maccabeus” by G.F. Haendel

Twelve variations on a theme “Ein madchen oder Weibchen”
From the opera “The magic Flute” by W.A.Mozart

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Rossini: La donna del lago

Gioachino Rossini
La Donna del Lago

Libretto Andrea Leone Tottola
Coro e orchestra della RAI di Torino
Direttore d’orchestra Piero Bellugi
Data della rappresentazione: 22 aprile 1970

Scarica qui la donna del lago di Rossini

Elena Montserrat Caballè soprano
Giacomo V Franco Bonisolli tenore
Rodrigo di Dhu Pietro Bottazzo tenore
Malcom Groem julia Hamari mezzo soprano
Douglas D’Angus Paolo Washington basso
Serano Gino Sinimberghi tenore
Albina Anna Maria Balboni soprano

Giacomo Leopardi scriveva da Roma al fratello Carlo, il 5 febbraio 1823, di aver assistito al Teatro Argentina alla Donna del lago e di essere stato affascinato dalla musica rossiniana: «eseguita da voci sorprendenti, è cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto». Ma Leopardi continuava: «è intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s’usa d’uscire dal palco proprio…». Forse da queste parole ebbe origine un pregiudizio che gli studiosi si sono tramandati per qualche tempo, circa la disuguaglianza fra un primo atto dell’opera, denso di gemme musicali, e un secondo atto non all’altezza del primo, anche per cadute di interesse nell’azione. In realtà la condotta drammatica della Donna del lago è simile a quella di tutte le opere serie del periodo rossiniano: solo nelle opere più mature di Donizetti e Bellini, per non parlare di Verdi, la costruzione drammatica sarà sapientemente costruita in ‘crescendo’, tutta puntata sul finale dell’ultimo atto. In quelle di Rossini non è mai così: il culmine dell’azione, della costruzione formale e musicale, e dell’interesse richiesto agli spettatori, si trova nel finale dell’atto primo. L’intero secondo atto può essere considerato un lento ‘diminuendo’ drammatico, ma questo non vuol dire che sia meno importante e trascurato: nel gioco di bilanciamenti e pesi drammatici, esso prevede sempre una sorta di ‘finale interno’ (un terzetto o un concertato ampio, a volte molto prima del finale ultimo vero e proprio), e le arie di congedo dei due o tre personaggi principali, secondo una disposizione calibrata come riflesso delle arie ‘di sortita’, quelle che presentavano per la prima volta i protagonisti nell’atto iniziale. È quanto avviene anche nella Donna del lago, che accoglie nel suo secondo atto un complesso duetto che sfocia in un terzetto, centro drammatico di tutta la vicenda. Questa inizia, nel primo, con un vasto blocco musicale, che esula dalle introduzioni tradizionali delle opere serie (coro e sortita di un personaggio, oppure scena e concertato): in sostanza è un lungo duetto, che comincia nel primo quadro, viene ripreso e svolto compiutamente nel quadro successivo, dopo il recitativo, e forma una sorta di prologo separato dal resto dell’atto, esaurendo addirittura gli interventi di uno dei personaggi principali, Giacomo V, che ricompare solo all’inizio del secondo atto. Tre blocchi drammatici (introduzione ‘lunga’, finale primo, duetto-terzetto del secondo) costituiscono dunque l’impalcatura dell’opera; di questi, il secondo è il centro musicale e drammatico (il finale d’atto), il terzo è il momento di ‘catastrofe’ della vicenda, che poi può solamente sciogliersi nei rondò virtuosistici dei protagonisti, Malcom ed Elena.

L’interesse per l’ambientazione scozzese era vivo all’epoca della Donna del lago, che rappresenta il primo melodramma italiano basato su un soggetto tratto da Walter Scott. La scelta forse non si deve al compositore: nella prefazione al libretto leggiamo che l’argomento «era già dall’Impresa de’ Reali Teatri destinato a trattarsi per una delle nuove Opere di questo anno». La vicenda è quella del poemetto narrativo The Lady of the Lake, non ancora tradotto in italiano nel 1819 ma disponibile nella versione francese, sulla quale probabilmente lavorò Leone Andrea Tottola. Il libretto tiene conto anche della traduzione che Melchiorre Cesarotti aveva offerto (Padova 1763) degli Ossianic poems di James Macpherson, che godevano ancora di vasta fortuna nel primo Ottocento. Si spiegano con il ricorso a Cesarotti citazioni e riferimenti al ‘clima ossianico’ assenti nel poema di Scott, e scelte metriche particolarmente innovative rispetto alla tradizione classicheggiante dell’opera seria italiana: ad esempio la ricchezza di combinazioni ritmiche e i giochi con le rime a metà verso. Più che la musica in sé, è forse l’ambientazione di molte scene a far sì che La donna del lago sia stata spesso considerata una delle prime opere romantiche italiane, o almeno la più romantica fra quelle del periodo italiano di Rossini.

In Scozia, a Stirling e nelle sue vicinanze, «sulla veduta del lago Kattrine, originato dalle acque cadenti, cui sovrasta ardito ponte di alberi». Un coro di pastori e pastorelle si intreccia a quello dei cacciatori, con effetti stereofonici in quanto questi ultimi, dall’alto di una rocca, rispondono sui richiami dei loro corni ai pastori, che agiscono in primo piano: la musica si impossessa dello spazio e questo è un motivo sconosciuto all’opera seria settecentesca. Si avanza Elena sul lago, sopra a un battello, cantando una melodia semplice e orecchiabile ma molto studiata nel fraseggio, (“O mattutini albori”), su un ritmo ondeggiante, da barcarola. Non è un’aria di sortita, è una semplice canzone che servirà quasi a identificare il personaggio del titolo, e a richiamare, quando sarà citata al termine del secondo atto, l’antefatto narrato nella prima parte dell’opera. Assistiamo all’incontro fra Elena e il re Giacomo V, che si aggira in incognito, durante la caccia, sotto il nome di Uberto. Elena offre subito ospitalità al finto cacciatore, accogliendolo sulla barchetta: il breve dialogo fra i due è cantato in recitativo e poi sulla ripresa della melodia di “O mattutini albori”. I cacciatori arrivano in primo piano, preoccupati per aver perso le tracce del loro compagno Uberto; essi levano una preghiera, prima di dividersi per cercarlo. Questi è frattanto giunto alla casa di Elena e trasalisce quando vede appese le insegne di un suo nemico, Douglas, caduto in disgrazia presso la corte e ritiratosi sui monti: Elena ne è la figlia. Le compagne giungono per rallegrarsi con lei delle sue imminenti nozze con ‘Rodrigo il forte’, capo dei clan alpini, che ha offerto protezione a Douglas. La temperatura emotiva si alza: Elena non nasconde la sua angoscia, Uberto è ormai invaghito di Elena e quando essa gli confida di non amare Rodrigo, egli fraintende e pensa per un momento di essere l’«altro amante». La cabaletta del lungo duetto, nel quale le sezioni intermedie vengono dilatate a dismisura da Rossini, è un esempio di transfer musicale, come lo sarà il primo duetto fra Arsace e Semiramide nella Semiramide: un gesto troppo audace di Uberto viene in apparenza rimproverato da Elena, ma nell’inconscio della donna suscita un’ondata di passionalità, diretta a colui del quale Elena è innamorata, il guerriero Malcom, ma espressa musicalmente proprio nei confronti di Uberto (in mancanza d’altro…), a sua volta preda del ritmo vorticoso e della figura vocale ascendente e poi bruscamente discendente che caratterizza l’avvio del brano. Con la scena seguente siamo introdotti a uno dei luoghi d’obbligo dell’opera seria: l’ingresso dell’amante-eroe, connotato dal libretto di alcuni tratti ombrosi e malinconici («si avanza concentrato, ed a passo lento, il giovine Malcom… si scuote dal suo letargo, guarda mestamente intorno…»), e dipinto da Rossini con una cavatina (“Elena, oh tu, ch’io chiamo”) densa di melismi che illustrano l’abbandono struggente dei versi «Grata a me fia la morte/ se Elena mia non è». Dopo la cabaletta virtuosistica (“Oh quante lacrime finor versai”), Malcom rimane in scena e ascolta di nascosto il dialogo fra Douglas e la figlia, che vorrebbe convincere il padre a rimandare le proprie nozze con Rodrigo. Douglas le impone severamente di obbedire e parte per incontrare Rodrigo. Malcom ed Elena si giurano fedeltà e intonano un duettino in un solo movimento. L’atmosfera marziale annunciata dalla precedente aria di Douglas, si impone ora con la scena dell’ingresso di Rodrigo, salutato dai suoi guerrieri e annunciato da una marcia per la quale viene utilizzata la banda sul palco, da Rossini impiegata per la prima volta l’anno precedente, in Ricciardo e Zoraide. La seconda sezione dell’aria di Rodrigo è dedicata al pensiero di Elena, di cui anche il guerriero è innamorato. Nella scena di Rodrigo sono intrecciate le due dimensioni espressive sulle quali è costruito l’intero finale d’atto: momenti privati di intima lacerazione (“Come celar le smanie”, intonato da Elena nel terzetto che costituisce il primo tempo del finale) si alternano a momenti pubblici, ‘politici’, di impeto patriottico e bellico. Fra questi vi sono l’entrata di Malcom al suono della banda e il grandioso coro dei bardi che conclude l’atto in una stretta elaborata. È abbastanza singolare la scelta del librettista, di concludere la scena puntando sull’effetto corale e relegando i drammi intimi dei protagonisti sullo sfondo: quando viene annunciato l’arrivo di un drappello nemico, un giuramento solenne è proposto da Rodrigo e ripreso da tutti i guerrieri; un crescendo orchestrale porta al canto di guerra sciolto dai «sacri cantori» per infondere coraggio, in tonalità maggiore (“Già un raggio forier”), al quale rispondono le donne in tonalità minore. L’accompagnamento dell’arpa e l’indicazione moderato hanno forse tratto in inganno alcuni direttori d’orchestra e alcuni commentatori, che definiscono questa pagina in termini di raffinata eleganza. In realtà, la costruzione contrappuntistica dei motivi, nello sviluppo del brano (si veda la ripresa del tema ‘bandistico’ dell’entrata di Malcom), ne fa una delle pagine più dense del Rossini napoletano: una pagina decisamente marziale e vigorosa, che il compositore rielaborò come Coro per il terzo centenario della nascita del Tasso(1844) e come Grido di esultazione riconoscente al sommo pontefice Pio IX(1846).

Elegante e raffinata è invece la cavatina di apertura del secondo atto, introdotta dal corno solista e cantata da Uberto (“O fiamma soave”), che si aggira per una «folta boscaglia», in abito da pastore: ha scoperto il rifugio in cui è nascosta Elena, mentre continua la guerra fra i clan alpini e le truppe del re. Quando egli trova il coraggio di dichiarare il proprio amore alla donna, questa è oppressa dall’affanno e dall’imbarazzo. Uberto decide civilmente di non importunare più l’amata e prima di partire le dona un anello con il quale essa potrà domandare al re la grazia per i suoi congiunti, ma i due sono sorpresi da Rodrigo, che chiama a raccolta i guerrieri e sfida il rivale. Senza cesure il brano iniziato come duetto (“Alla ragion deh rieda”) si sviluppa nel complesso terzetto, che ne costituisce la grandiosa stretta. Sorprendente è il tempo lento del duetto, “Nume se a miei sospiri”, in cui Rossini inserisce alternativamente i versi cantati da Elena e Uberto ‘fra sé’, come se fossero su due piani paralleli: per alcune battute, Elena canta le sue frasi in una tonalità (la bemolle maggiore, su un accompagnamento di terzine, ai fiati) e Uberto inserisce i suoi interventi in un’altra (do minore, su tremolo degli archi), senza che le due prospettive si fondano, se non al termine, quando finalmente i personaggi cantano assieme (in seste parallele), anche se riaffiorano i minacciosi tremoli degli archi, in orchestra. È qui evidente uno degli artifici di cui dispone il compositore- narratore, per rendere l’alternanza dei punti di vista, delle prospettive dei personaggi, in una sorta di ‘montaggio parallelo’. L’inizio della prima cabaletta del duetto è anche l’inizio del terzetto, perché alla melodia discendente, a canone, di Elena e Uberto (“Qual pena in me già desta”), si aggiunge la frase, paralizzata su una stessa nota, di Rodrigo (“Misere mie pupille”), nascosto a spiare i due. La gelosia di Rodrigo prorompe poi in una cascata di virtuosismi, ripresi e imitati da Uberto: Elena è circondata da due spasimanti non graditi, l’effetto stereofonico di eco fra le voci che si imitano nelle frasi virtuosistiche accentua l’idea di soffocamento, e indica che il ‘punto di vista’, in questa scena, è quello della protagonista. Quando Rodrigo si svela e chiama i guerrieri, all’accendersi del duello Elena esplode in una frase scolpita in tonalità minore (“Io son la misera”), che focalizza il suo sconvolgimento ed è ripresa a canone dai due rivali, generando un altro intreccio contrappuntistico e imitativo fra le voci.

Formalmente più convenzionale è il seguito dell’opera: Malcom viene a sapere che Elena si è recata alla corte del re, per salvare il padre, costituitosi. Nella battaglia hanno prevalso le truppe reali e Rodrigo è stato ucciso nel duello con l’ignoto rivale. A corte, Elena chiede di essere ammessa alla presenza del re per mostrargli l’anello donatole da Uberto e chiedere così la grazia per Douglas. Ascolta la voce di Uberto che intona, su diverse parole, la melodia di “O mattutini albori” e apprende che egli è in realtà Giacomo V. Il re concede grazia a Douglas e a Malcom: Elena può intonare “Tanti affetti in un momento”, fuoco d’artificio che suggella il lieto fine e che sarà ripreso inBianca e Fallieroe per il rifacimento veneziano delMaometto II.

Penultima delle nove opere serie scritte da Rossini per Napoli, la Donna del lago è la terza delle quattro nate nel 1819: segue la napoletana Ermione e il ‘centone’ organizzato per Venezia, Eduardo e Cristina. In realtà, dopo Ermione Rossini non avrebbe dovuto scrivere per Barbaja fino alla quaresima dell’anno successivo, ma il forfait di Gaspare Spontini, scritturato al San Carlo e richiesto imperiosamente nello stesso tempo a Berlino da Federico Guglielmo III di Prussia, obbligò l’impresario a ricorrere nuovamente al Pesarese per colmare il vuoto nel cartellone. A Rossini fu necessario l’aiuto di un collaboratore, che stese quasi tutti i recitativi accompagnati e compose l’aria di Douglas. L’opera andò in scena al San Carlo di Napoli con Isabella Colbran, Rosmunda Pisaroni, Andrea Nozzari, Giovanni David e Michele Benedetti: una compagnia già sperimentata nel Ricciardoe nell’ Ermione. L’ultima rappresentazione ottocentesca sembra essere stata quella del 1860 a Trieste; poi, un lungo oblio fino alle riprese moderne, ampiamente rimaneggiate: al Maggio musicale fiorentino (1958, direttore Tullio Serafin), a Londra (1969, Camden Town Hall, con Kiri Te Kanawa), alla Rai di Torino (1970, con Montserrat Caballé), al Comunale di Bologna (1975, con Angeles Gulin). La prima ripresa autentica, integrale e basata sull’edizione critica di H. Colin Slim (edita solo nel 1990), è quella del settembre 1981 al Rossini Opera Festival pesarese, direttore Maurizio Pollini, interpreti Lella Cuberli e Martine Dupuy. Ricordiamo anche le rappresentazioni di Houston e New York (1981-82, con Marilyn Horne, Federica von Stade, Rockwell Blake e Dano Raffanti), la ripresa dell’allestimento di Pesaro nel 1983 (Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani) e l’edizione del Teatro alla Scala, diretta da Riccardo Muti nel 1992 (con June Anderson, Martine Dupuy, Chris Merritt e Rockwell Blake).

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi

Melodramma in due atti
di Andrea Leone Tottola

PERSONAGGI

Giacomo V, Re di Scozia, Tenore
sotto il nome del CavalierUberto di Snowdon,
Douglas d’Angus, Basso
Rodrigo di Dhu, Tenore
Elena, Soprano
Malcolm Groeme, Contralto
Albina, Mezzosoprano
Serano, Tenore
Bertram, Basso
Pastori, Pastorelle, scozzesi
Bardi
Grandi. Dame, scozzesi
Guerrieri del Clan Alpino, Cacciatori, Guardie reali

L’azione è nella Scozia, e propriamente in Stirling e sue vicinanze.

ATTO PRIMO

La scena presenta la famosa rocca di
Benledi, che, coverta alla vetta da folta
boscaglia, e quindi allargandosi al basso,
forma una spaziosa valle, nel centro della
quale è il Lago Kattrine, originato dalle
acque cadenti, cui sovrasta ardito ponte di
tronchi di alberi.

Sorge l’aurora.

SCENA PRIMA

Pastori e pastorelle, che rendonsi a’ campestri lavori.
Sull’alto cacciatori, che inoltransi nel bosco.

PASTORELLE

Del dì la messaggiera
Già il crin di rose infiora.

PASTORI

Dal sen di lei che adora,
Già fugge rapido
L’astro maggior.

TUTTI

Ed al suo lucido
Brillante aspetto
Ripiglia ogni essere
Vita e vigor.

CACCIATORI

Figli di Morve!
Su su! alle selve!
Le caledonie
Temute belve
A noi preparano
Novello allor.
(Perdonsi di vista).

PASTORI
A’ nostri riedasi
Lavori usati.

PASTORELLE
Come verdeggiano
Ridenti i prati…

PASTORI
Al par che ombreggiano
Le querce annose.

PASTORELLE
Come spontanee
Sorgon le rose…

TUTTI
Così a’ sudori
Del buon cultor,
Grate rispondano
Le piante, i fior.
(S’incamminano per varie strade).

CACCIATORI
(di lontano)
Su su! alle selve!
Le irsute belve
A noi preparano
Novello allor.

SCENA SECONDA
Elena in un battello nel lago; indi Uberto
dalla rocca.

ELENA
Oh mattutini albori!
Vi ha preceduti Amor.
Da’ brevi miei sopori
A ridestarmi ognor
Tu vieni, o dolce immagine
Del caro mio tesor!
Fugge, ma riede il giorno;
Si cela il rio talor,
Ma rigorgoglia intorno
Di più abbondante umor;
Tu a me non torni, o amabile
Oggetto del mio ardor!
(Si ode il vicino suono di un corno, che viene
ripetuto di lontano).
Qual suon! Sull’alta rocca
Già le fiere a domar van di Fingallo
I ben degni nepoti. Oh! se fra quelli
Si aggirasse Malcolm! vana speranza!
Rapido qual baleno
Ei sarebbe volato a questo seno.
(Giunta alla riva, scende dal battello, che
attacca ad un tronco).

UBERTO
(Eccola! alfin la rendi
All’avido mio sguardo, o Ciel piétoso!
No, non mentì la fama,
Anzi è minor di sua beltade il grido.)

ELENA
Di questo lago al solitario lido
Chi ti guida? chi sei?

UBERTO
Da’ miei compagni,
Una cerva inseguendo,
Mi allontanai. Fra queste
Alpestri, incerte balze il piè inoltrai,
E, già la via smarrita,
A domandarti aita io mi volgea
A te, non donna, ma silvestre dea.
(Fingasi.)

ELENA
Amico asilo
Ti sia la mia capanna: all’altra sponda
Meco, se il vuoi, signor, recar ti dei.

UBERTO
Ah sì, del mio destin l’arbitra sei.

ELENA
Scendi nel piccol legno,
Al fianco mio ti assidi.

UBERTO
Oh del tuo cor ben degno
Eccesso di bontà!

ELENA
Sei nella Scozia, e ancora
Non sai che qui si onora
Pura ospitalità?

UBERTO
Deh!… mi perdona… (oh Dio!
Confuso appien son io!)

ELENA
Ah sgombra omai l’affanno,
Lieto respiri il cor.

UBERTO
(Un innocente inganno
(Guadando insieme il lago).

SCENA TERZA
Da varie balze giungono al piano i cacciatori
anelanti in traccia d’Uberto.

CORO DI CACCIATORI
(una parte)
Uberto! ah! dove ti ascondi? Uberto!

ALTRA PARTE
Donde tracciarlo? come trovarlo?

I PRIMI
La fosca selva… l’alpestre, il piano
Si è già percorso, ma tutto invano!

GLI ALTRI
Lo invola al certo…

TUTTI
Uberto! Uberto!
L’eco risponde! speme non v’ha!
Veloci scorransi altri sentieri…

I PRIMI
Noi là… sul monte…

GLI ALTRI
Noi verso il fonte…

TUTTI
Chi a ravvisarlo primier sarà
Agli altri segno dar ne potrà.
Tu, che ne leggi nel cor fedel,
Al nostro sguardo lo addita, o Ciel!
(Si disperdono per diverse strade).

Albergo di Douglas. Veggonsi sospese alle
pareti le sue armi e quelle degli antenati.

SCENA QUARTA
Albina e Serano.

ALBINA
E in questo dì?

SERANO
Tel dissi: atteso giunge
Rodrigo.

ALBINA
(Elena! oh quanto
Ti fia grave un tal dì!)

SERANO

Quei fidi amici,

Cui spento ancor nel petto

Non è l’avito ardor, raccoglie intorno

Il belligero eroe. Sacro in quell’alma

Di patria amor tutto l’investe, e ardito

L’impeto incauto ad arrestar lo spinge

Di Giacomo, che queste

Contra ogni legge invade

Pacifiche contrade. Ah! regga il Cielo

Così nobil desìo, sì puro zelo!

ALBINA

E di Elena la destra?

SERANO

In dolce pegno

Di tenace amistà Douglas destina

A sì prode guerrier.

ALBINA

(Tutte prevedo

Le pene di quel cor!)

SERANO

Tu vieni intanto

A’ domestici uffici,

Che maggiori in tal giorno

Fa un ospite sì degno: il sai, diviso

Fia più lieve il giorno.

ALBINA

(Quanto m’affanna, o amica, il tuo martoro!)

(Entrano).

SCENA QUINTA

Elena ed Uberto.

ELENA

Sei già nel tetto mio: dorata stanza,

Dove il fasto pompeggia,

Ove il lustro grandeggia,

Questa non è; ma, semplice ed umile,

Qui raccoglie secure

Dall’invido livore

Pace, amistade, amor filiale, onore.

UBERTO

(Felice albergo! oh quanta

Beltà, virtù racchiudi!)

ELENA

Il lasso fianco

Posar ti piaccia.

UBERTO

(sorpreso)

(Ah! qual ravviso intorno

Ornamento guerrier! no… non m’inganno…

Di cavalier scozzese

Che gli avi miei seguì, veggo l’arnese!

Ove son io? e in qual periglio!)

ELENA

E donde

Il tuo cupo silenzio? a che dubbioso

Volgi intorno lo sguardo?

UBERTO

Amabil diva!

Se a te nol vieta alta cagion, deh lascia,

Ch’io conosca a chi debba

Tratto così gentil?

ELENA

Vanto nel padre

Il famoso Douglas.

UBERTO

(in uno slancio che poi reprime)

Ah!

ELENA

Lo conosci?

UBERTO

Per fama… e chi nol sa?

ELENA

Civil discordia

Lo rapì dalla corte!

UBERTO

Oh quanto ancora

N’è Giacomo dolente!

ELENA

E chi tel disse?

UBERTO

Voce sparsa così… (mal cauto ardore!

Non mi svelar: che mai di me sarebbe

Se giungesse Douglas?)

ELENA

Ma pensieroso

Chi ti rende così?

UBERTO

Di tue pupille

Il soave balen… di quegli accenti

Il dolce suon… ma… chi a noi vien?

ELENA

Le care

Compagne mie son quelle,

Che all’apparir del giorno

Sollecite al mio sen fanno ritorno.

SCENA SESTA

Entrano le compagne d’Elena, che circondandola

le dirigono il seguente coro.

Infine Albina.

CORO

D’Inibaca,

Donzella,

Che fe’

D’immenso amor

Struggere un dì

Tremmor,

Terror del Norte,

Sei Elena

Più bella:

Per te

Di pari ardor

Avvampa così

Ognor Rodrigo, il forte.

UBERTO

(Rodrigo! che mai sento!)

ELENA

(Funesta rimembranza!)

UBERTO

(Di gelosia tormento!

Io già ti provo in me.)

ELENA

(Affetti miei! speranza

Più il Ciel a voi non diè!)

CORO

Indissolubili – Dolci ritorte,

O coppia amabile! – In te deh annodino

Beltà e valor.

E da l’eterea, – Celeste corte

I genii pronubi, – Il lieto innalzino

Canto di amor!

UBERTO

Sei già sposa? ed è Rodrigo,

Che dal Ciel tal sorte attende?

ELENA

Le mie barbare vicende

Che ti giova penetrar?

UBERTO

Forse… ah di’… non è l’oggetto

Che tu adori? un altro amante

Sospirar, languir ti fa?

ELENA

Ah! mi tolse un solo istante

Del mio cor la libertà.

UBERTO

(Quali accenti! e deggio in seno

Dolce speme alimentarti?

Ah sì! annunzi un tuo baleno

Tanta mia felicità!)

ELENA

(Quai tormenti! e come in seno

Posso, o speme, alimentarti?

Da me fugge qual baleno

Ogni mia felicità.)

UBERTO

(Ma son sorpreso

Se qui più resto!

Oh qual contrasto

Crudele è questo!)

Le compagne di Elena versano della cervogia

in una tazza a guisa di piccola conca e la porgono

ad Elena, dalla quale vien presentata ad Uberto,

che beve mentre esse cantano).

ELENA

L’ospital conca

Da me ricevi,

Gli oppressi spirti

Rinfranca, e bevi.

CORO

Ti siano fausti

I genii lari,

E a te sorridano

Pace, amistà.

UBERTO

Il tuo bel core

Deh a me conceda,

Che a’ miei compagni

Ben tosto io rieda.

ELENA

(vedendola giungere)

L’amica Albina,

Che all’uopo arriva,

All’altra riva

Ti condurrà.

UBERTO

Bella! al tuo lato

Sempre sarei!

ELENA

(con contegno imponente)

Hai tu obbliato,

Che ospite sei?

UBERTO

Lascia che imprima

Su quella mano…

ELENA

Costume in Morve

Non v’ha sì strano.

UBERTO

(Da lei dividermi

Come potrò?)

ELENA

(Qual dolce immagine

In me destò!)

UBERTO

(Cielo! in qual estasi

Rapir mi sento

D’inesprimibile

Dolce contento!

Di quai delizie

M’inebbria Amore!

Che cari palpiti

Pruovar mi fa!)

ELENA

(Cielo! in qual estasi

Rapir mi sento,

Se il mio bell’idolo

Talor rammento!

Di quai delizie

M’inebbria Amore!

Che cari palpiti

Pruovar mi fa!)

UBERTO e ELENA

Addio!

UBERTO

(Deh placati,

Fato crudel!)

ELENA

Propizio

Ti assista il Ciel!

(Elena entra nelle sue stanze. Uberto esce

scortato da Albina e dalle donzelle).

SCENA SETTIMA

Dalla parte opposta donde sono partiti

gl’indicati attori, si avanza concentrato ed a

passo lento il giovane Malcolm. Giunto in

mezzo alla scena, si scuote dal suo letargo,

guarda mestamente intorno, indi dice:

MALCOLM

Mura felici, ove il mio ben si aggira!

Dopo più lune io vi riveggo: ah! voi

Più al guardo mio non siete,

Come lo foste un dì, ridenti e liete!

Qui nacque, fra voi crebbe

L’innocente mio ardor: quanto soave

Fra voi scorrea mia vita

Al fianco di colei,

Che rispondea pietosa a’ voti miei!

Nemico nembo or vi rattrista, e agghiaccia

Il mio povero cor! mano crudele

A voi toglie, a me invola… oh rio martoro!

La vostra abitatrice, il mio tesoro.

Elena! oh tu, ch’io chiamo!

Deh vola a me un istante!

Tornami a dire: “io t’amo!”

Serbami la tua fé!

E allor, di te sicuro,

Anima mia! lo giuro,

Ti toglierò al più forte,

O morirò per te.

Grata a me fia la morte,

S’Elena mia non è.

Oh quante lacrime – Finor versai

Lungi languendo – Da’ tuoi bei rai!

Ogn’altro oggetto – È a me funesto;

Tutto è imperfetto, – Tutto detesto;

Di luce il cielo – No più non brilla,

Più non sfavilla – Astro per me.

Cara! tu sola – Mi dai la calma,

Tu rendi all’alma – Grata mercé!

SCENA OTTAVA

Serano e detto, poi Douglas ed Elena.

SERANO

Signor, giungi opportuno: al vallo intorno

Già di guerrieri eletta schiera è giunta,

E di poco precede

Il famoso Rodrigo. Oh come esulta

Douglas di gioia! un avvenir felice

Alla Scozia, alla figlia, a lui predice.

MALCOLM

(Qual fiero stato è il mio!

Straziata ho l’alma, e simular degg’io!)

SERANO

Tu non rispondi? il ciglio

Grave hai di pianto?

MALCOLM

Amico,

Lasciami al mio destin!

SERANO

(Ah! lo compiango!

Penetro la cagion del suo dolore!)

(Parte).

MALCOLM

Eccola! e con Douglas! forza o mio core!

(Resta inosservato).

DOUGLAS

Figlia, è così: sereno è il Cielo, arride

Di ogni alma a’ voti, e già di lieti evviva

In queste un tempo erme contrade or senti

Mille voci echeggiar. La Scozia oppressa

Le ombre irate degli avi al solo eroe,

Cui l’onor di esser sposa è a te serbato,

Volgon fremente il ciglio, e ‘l patrio onore

Affidano al suo brando. A te sol resta

Coronar tanta impresa, e la tua mano

Nel ben sentier di gloria,

L’alto campione affretti alla vittoria.

MALCOLM

(E resisto? e non moro!)

ELENA

(smaniando da sé)

Oh padre! e quando

Ferve bollor di guerra, allor che all’armi

Corre ogni età, mentre lo scudo imbraccia

La debil fanciullezza,

La tremula canizie, e tutto al guardo

Stragi presenta e bellici furori,

Parli di nozze, e vai destando amori?

MALCOLM

(Ah! mi è fedel!)

DOUGLAS

Sul labbro tuo stranieri

Son questi accenti, e fia l’estrema volta,

Ch’io da te l’oda. Ad obbedirmi apprenda

Chi audace mi disprezza:

Onte a soffrir non è quest’alma avvezza.

Taci, lo voglio, e basti;

Meglio il dover consiglia:

Mostrami in te la figlia

Degna del genitor.

Di un passaggero orgoglio

Perdono in te l’eccesso;

Ti dica questo amplesso,

Che mi sei cara ancor.

(Si sentono da lungi squillar le trombe).

Ma già le trombe squillano!

Giunge Rodrigo! oh sorte!

Io ti precedo: sieguimi,

Ed offri al prode, al forte

In puro omaggio il cor.

Di quelle trombe al suono

Ah! ridestar mi sento

Nel core, di forze spento,

L’usato mio valor.

(Parte).

ELENA

E nel fatal conflitto

Di amore e di dover, fra tante pene,

Elena, che farai?

MALCOLM

Mio caro bene!

ELENA

Malcolm! stelle! tu qui?

MALCOLM

Mi chiama in campo

Quella ragione istessa,

Che arma i prodi di Scozia.

ELENA

E in quale istante

Giungesti!

MALCOLM

E che? dell’amor tuo poss’io,

Elena, dubitar?

ELENA

Crudele! e puoi

Oltraggiarmi così?

MALCOLM

Se fida è dunque

A me quell’alma, io sfiderò le stelle:

Sì, de’ nostri tiranni

Resisterò al poter.

ELENA

Saprò morire

Esempio di costanza.

MALCOLM

A me la mano

Di giuramento in pegno.

ELENA

Eccola.

ELENA e MALCOLM

O sposi, o al tenebroso regno.

Vivere io non potrò,

Mio ben, senza di te;

Fra l’ombre scenderò

Pria che mancar di fé.

(Partono).

Vasta pianura, circondata da alti monti:

si vede da lungi altra parte del lago.

SCENA NONA

Rodrigo si avanza in mezzo ai guerrieri

del clan, che lietamente l’accolgono; indi

Douglas.

CORO

Qual rapido torrente,

Che vince ogni confin,

Se torbido e fremente

Piomba dal giogo alpin,

Così, se arditi in campo

Ne adduce il tuo valor,

Non troverà più scampo

L’ingiusto, l’oppressor.

Vieni, combatti e vinci,

Corri a’ novelli allori:

Premio di dolci ardori

Già ti prepara Amor.

RODRIGO

Eccomi a voi, miei prodi,

Onor del patrio suolo;

Se meco siete, io volo

Già l’oste a debellar.

Allor che i petti invade

Sacro di patria amore,

Sa ognor di mille spade

Un braccio trionfar.

CORO

Sì, patrio onor c’invade,

Guidaci a trionfar!

RODRIGO

Ma dov’è colei, che accende

Dolce fiamma nel mio seno?

De’ suoi lumi un sol baleno

Fa quest’anima bear!

Fausto Amor se a me sorride,

Io non so che più bramar!

Ed allor, qual nuovo Alcide,

Saprò in campo fulminar.

CORO

A’ tuoi voti Amor sorride,

Ah! ti affretta a giubilar!

DOUGLAS

Alfin mi è dato, amico,

Stringerti al sen: ah! di sì grato istante

Bramosa l’alma mia, più dell’usato

Le ali al tempo agitò.

RODRIGO

Di egual desìo

Fu anelante il mio cor.

DOUGLAS

Venga, e ne offenda

Or Giacomo, se il può. Rodrigo è in campo?

Seco è vittoria. Eventi i più felici

Brillano già da così lieti auspici.

RODRIGO

Se il saggio tuo consiglio

Il mio braccio avvalora,

Non dubitar, salva è la patria allora.

DOUGLAS

Il presagio felice

Avveri il Ciel!

RODRIGO

Ma teco

A che non è la figlia?

DOUGLAS

Io la precedo

Di pochi passi.

RODRIGO

Ignora forse il mio

Impaziente ardor?

DOUGLAS

Eccola!

RODRIGO

Amici!

Voi l’amata mia diva

Accogliete con plausi e lieti evviva.

SCENA ULTIMA

Elena, Albina e detti, indi tutti a suo tempo.

CORO

Vieni, o stella – Che lucida e bella

Vai brillando – Sul nostro orizzonte!

Tu serena – Deh mostra la fronte

A chi altero – È di tanta beltà.

E come brina,

Che mattutina,

La terra adusta

Bagnando va,

Così l’aspetto

De’ tuoi bei lumi

Di gioia il petto

Gl’inonda già.

RODRIGO

Quanto a quest’alma amante

Fia dolce un tale istante

Non può il mio labbro ‘esprimerti,

Né trova accenti Amor.

Ma che? tu taci, e pavida

Il ciglio abbassi ancor?

DOUGLAS

Loquace è il suo silenzio;

Il sai: loclinia vergine

Gli affetti suoi più teneri

Consacra al suo pudor.

ELENA

(Come celar le smanie

Che straziano il mio cor?

Non posso… oh Dio! resistere

A così rio dolor!)

DOUGLAS

(Del tuo dover dimentica

Ti rende altro amator?

Figlia sleal! paventami,

Trema del mio furor.)

RODRIGO

(A che i repressi gemiti?

A che quel suo pallor?

Ondeggio incerto, e palpito

Fra speme e fra timor!)

ELENA, RODRIGO e DOUGLAS

(Di opposti affetti un vortice

Già l’alma mia circonda…

Caligine profonda

Già opprime i sensi miei

Del più fatale orror!

Per sempre io ti perdei,

O calma del mio cor!)

(Malcolm alla testa de’ suoi seguaci si presenta

a Rodrigo).

MALCOLM

La mia spada, e la più fida

Schiera eletta a te presento:

Al cimento, a fier periglio,

Alla morte ancor me guida:

Mostrerò che un degno figlio

Può vantar la patria in me.

(Ah! di freno e di consiglio

Più capace il cor non è!)

ELENA

(Ah! lo veggo, e di consiglio

Più capace il cor non è!)

DOUGLAS

(Figlia iniqua, il tuo scompiglio

Veggo or ben chi desta in te!)

RODRIGO

Questo amplesso a te fia pegno

Di amichevoli ritorte:

La mia gioia or colma è al segno

Fra l’amico e la consorte!

Oh quai vincoli soavi

Di amistade e pura fé!

MALCOLM

La consorte! e chi?

RODRIGO

Nol sai?

DOUGLAS

Qual sorpresa!

RODRIGO

A’ dolci rai

Ardo ognor d’Elena bella…

MALCOLM

(in uno slancio inconsiderato)

Ah! non fia!

DOUGLAS

Che?

RODRIGO

Qual favella?

ELENA

Ah! non fia che a te contrasti

Sorte avversa il bel contento…

Volea dir…

MALCOLM

Ma…

ELENA

Tal momento

Fa quell’anima gioir…

(rapidamente e di nascosto a Malcolm

per frenarlo)

(Taci… oh Dio! per te pavento!

Ah! pietà del mio martir!)

RODRIGO

(Crudele sospetto,

Che mi agiti il petto,

Ah taci! comprendo…

Già d’ira m’accendo!

Le furie di averno

In seno mi stanno!

Sì barbaro affanno

No, pari non ha!)

ELENA e MALCOLM

(Ah celati o affetto

Nel misero petto!

Ei tutto comprende!

Minaccia! si accende!

E intanto quest’alma

Oppressa, smarrita,

Non trova più aita,

Più pace non ha!)

DOUGLAS

(Ah! l’ira, il dispetto,

Mi straziano il petto!

Ei tutto comprende!

Minaccia! si accende!

Sì… sono implacabile…

Vendetta mi affretta…

Un padre più misero

La terra non ha!)

ALBINA e CORO

(Crudele sospetto

Gli serpe nel petto!

Quai triste vicende!

Si adira! si accende!

Il Ciel par che ingombri

Un nembo assai fiero…

Sì cupo mistero

Qual termine avrà?)

(Giunge Serano frettoloso. I bardi lo seguono).

SERANO

Sul colle a Morve opposto

O stil drappello avanza…

CORO

Nemici!

DOUGLAS

Oh qual baldanza!

CORO

Nemici!

RODRIGO

Andiam… disperdansi…

Distruggansi gli audaci…

MALCOLM, RODRIGO e DOUGLAS

(Privato affanno ah taci!

Trionfa o patrio amor!)

RODRIGO

(a’ bardi)

A voi, sacri cantori!

Le voci ormai sciogliete:

In sen bellici ardori

Destate su, muovete;

Ed al tremendo segno,

Che a battagliar ne invita,

Mi giuri ogn’alma ardita

Di vincere o morir.

MALCOLM, DOUGLAS e CORO

Giura quest’alma ardita

Di vincer o morir.

(Un capitano reca e solleva in alto un

grande scudo, che fu del famoso Tremmor

secondo la tradizione degli antichi Brettoni.

Rodrigo con la sua lancia vi batte sopra tre

volte. Rispondono egualmente tutti i

guerrieri, battendo le aste su’ loro scudi).

UN PRIMO BARDO

Già un raggio forier

D’immenso splendor,

Addita il sentier

Di gloria, di onor.

GLI ALTRI BARDI

Oh figli di eroi!

Rodrigo è con voi.

Correte, struggete

Quel pugno di schiavi…

Già l’ombre degli avi

Vi pugnano allato…

Voi, fieri all’esempio

Di tanto valor,

Su, su! fate scempio

Del vostro oppressor!

ALBINA

E vinto il nemico,

Domato l’audace,

La gioia, la pace

In voi tornerà.

LE DONZELLE

E allora felici

Col core sereno

Le spose, gli amici

Stringendovi al seno,

L’ulivo all’alloro

Succeder saprà.

BARDI

Oh figli di eroi!

Rodrigo è con voi…

Correte, struggete

Il vostro oppressor.

RODRIGO

Allarmi o campioni!

La gloria ne attende…

(Qui una brillante meteora sfolgoreggia

nel cielo; fenomeno in quella regione

non insolito. Sorpresa in tutti).

TUTTI

Di luce si accende Insolita il ciel!

RODRIGO e DOUGLAS

D’illustre vittoria

Annunzio fedel!

BARDI

Correte… struggete

Il vostro oppressor.

MALCOLM, RODRIGO e DOUGLAS

Su… amici! guerrieri!

CORO DI GUERRIERI

Marciamo! struggiamo

Il nostro oppressor!

ALBINA, ELENA e DONZELLE

Su i nostri guerrieri

Compagne! imploriamo

Del Cielo il favor.

(Le donzelle con Albina si ritirano seguendo Elena,

mentre Rodrigo marciando alla testa di poderosa

schiera, Malcolm guidando i suoi seguaci, ed altri

duci facendo lo stesso pel piano e per le colline,

sgombrano interamente la scena, e si cala il sipario).

ATTO SECONDO

Folta boscaglia: grotta da un lato.

SCENA PRIMA

Uberto da pastore, indi Elena e Serano dalla

grotta.

UBERTO

Oh fiamma soave,

Che l’alma mi accendi!

Pietosa ti rendi

A un fido amator.

Per te forsennato

Affronto il periglio:

Non curo il mio stato,

Non ho più consiglio;

Vederti un momento,

Bearmi in quel ciglio

È il dolce contento,

Che anela il mio cor!

Sì, per te mio tesoro, in rozze spoglie,

Che al guardo altrui celar mi sanno, e in questa

Inospita foresta

Mi guida un cieco amor. Da che ti vidi

Perdei la pace, e porti in salvo io bramo

Dagli eventi di guerra, or che di sangue…

Di patrio sangue… ahi lasso!

Rosseggerà la Scozia. Ah! fu mendace

Forse colui, che, da me compro, il tuo

Solingo asilo a me svelò? qual fato

Crudele a me ti asconde?

Solo a’ gemiti miei l’eco risponde.

(Si aggira per la scena).

ELENA

(a Serano)

Va’, non temer: è meco Albina. Ah vola

Del padre in traccia. Egli tornar promise

Pria della pugna, e il termine già scorre,

Che al ritorno prefisse. Oh quanti in seno

Nuovi palpiti desta

Tanta tardanza, al mio timor funesta!

SERANO

Calma l’affanno: ad appagarti or vado;

Abbi cura di te.

(Parte).

ELENA

Da quanti affanni

È straziato il mio cor!

UBERTO

(ravvisandole)

Nume possente!

Tu arridi a’ voti miei!

ELENA

Un uom! Si fugga…

UBERTO

Ah ferma!

ELENA

E tu chi sei?

UBERTO

Non mi ravvisi?

ELENA

E chi?

UBERTO

Cure ospitali

Mi prodigò la tua bell’alma.

ELENA

Ah! è vero!

Or ti conosco. Ebben? da me che chiedi?

Chi spinge i passi tuoi? qual nutri ardire?

UBERTO

Dirti ch’io t’amo, e di tua man morire.

ELENA

Intempestivo ardor!

UBERTO

De’ tuoi bei lumi

Chi resiste al poter? E chi vederti

Può senza amarti? ah! se il tuo cor risponde

All’aspetto gentile;

Se qualche lusinghier, soave accento,

Che ti sfuggì dal labbro allor che teco

Io fui, non m’ingannò, non puoi, non dei

Esser crudele a chi t’adora.

ELENA

Oh quanto

Mi fai pietà!

UBERTO

Pietà tu senti? ah dunque

Spera mercede il mio cocente ardore?

ELENA

Ah! nol poss’io! non è più meco il core!

UBERTO

Come?

ELENA

Giova a te dirlo, onde fia spenta

La tua fiamma nascente. Amor mi strugge

Pel mio Malcolm. Inviolabil fede,

O morte io gli giurai del padre ad onta,

Che all’odiato Rodrigo

La mia destra promise. Ah! tu ben vedi,

Che spergiura io sarei,

Mostro d’infedeltade

Detestevole, orrendo,

Se i tuoi voti accogliessi.

UBERTO

Oh me dolente!

O sventurato amore!

ELENA

Mi fai pietà… ma non ho meco il core!

Alla ragion deh rieda

L’alma agitata, oppressa,

Ed all’amor succeda

La tenera amistà.

UBERTO

Arcani sì funesti

Perché tacermi, ingrata!

Allor che mi rendesti

Preda di tua beltà?

ELENA

Che amavi io non sapea…

UBERTO

Non tel diss’io?

ELENA

Credea,

Che gentilezza…

UBERTO

Amore…

Sì… in me possente Amore

Fiamma destò vorace ….

E la sua cruda face

Struggermi appien saprà!

ELENA

(Nume! se a’ miei sospiri

Pace donar non sai,

Almen de’ suoi martiri

Calma la crudeltà!)

UBERTO

(Io del suo cor tiranno?

Farla infelice io stesso?

Ah no… di Amore a danno

Virtù trionferà.)

Vincesti… addio!… rispetto

Gli affetti tuoi…

ELENA

Ten vai?

UBERTO

A che mirar quei rai

Severi ognor per me?

ELENA

Se de’ tuoi giusti lai

La rea cagion son io,

Squarciami un cor che mai

Darti saprà mercé!

UBERTO

No, cara: anzi desio

Pegno di mia costanza

Lasciarti in rimembranza,

Che sacro io sono a te.

ELENA

E qual?

UBERTO

Da rio periglio

Salvai di Scozia il Re.

Il suo gemmato anello

Egli mi dié: tel dono.

(Le mette al dito il suo anello).

Se mai destin rubello

Te, il genitor, l’amante

Sa minacciar, dinante

Ti rendi al Re: la gemma

Appena mostrerai,

Grazia per tutti avrai;

E ad appagarti intento

Sempre il suo cor sarà.

ELENA

E il mio rigor contento

Renderti… oh Dio! non sa?

UBERTO

Ah! basta al mio tormento

Destar la tua pietà.

SCENA SECONDA

Rodrigo in osservazione e detti.

RODRIGO

(Misere mie pupille!

Che più a mirar vi resta?

Oh gelosia funesta!

Oh ria fatalità!)

(Scovrendosi e dirigendosi ad Uberto).

Parla.. chi sei?

ELENA

(Rodrigo!)

UBERTO

(Egli! oh furor!)

ELENA

(Destino

Crudel!)

RODRIGO

Non sembri Alpino!

Sei tu del clan?

UBERTO

Ne aborro

L’infausto nome.

RODRIGO

Amico

Forse del Re?

UBERTO

Lo sono…

RODRIGO

Che ascolto?

ELENA

Incauto!

UBERTO

E tale!

Che te non teme, e quanti

Perversi ha il Re nemici.

RODRIGO

Perversi?

ELENA

Oh ciel! che dici!

Frenati!… ah qual martire!

UBERTO

Tu mi vedrai morire…

Non so che sia viltà.

ELENA

(Mi sento… oh Dio! morire!

Mancando il cor mi va!)

RODRIGO

(Qual temerario ardire!

Frenarmi e chi potrà?)

Né ancor ti arrendi, audace?

UBERTO

Ov’è il tuo stuol seguace,

Che i suoi doveri obblia?

Alla presenza mia

Impallidir saprà.

RODRIGO

Da’ vostri aguati uscite,

Figli di guerra!

(Al suo grido vedesi tutta la scena ingombra

in un istante di guerrieri del clan, che erano

nascosti ne’ folti cespugli del bosco).

GUERRIERI

A’ tuoi

Cenni siam pronti.

RODRIGO

Ostenta

Orgoglio, or più, se il puoi…

ELENA

Che miro! oh Dio!

RODRIGO

Paventa

Di quegli acciari al lampo…

Per te non vi è più scampo…

(a’ guerrieri, che nello slanciarsi si fermano

alle grida di Elena)

Ferite un traditor.

ELENA

Fermate!

UBERTO

E tu guerriero?

ELENA

Cedete a’ pianti miei…

UBERTO

No… di vil gregge sei

Malvagio conduttor!

RODRIGO

Cessate! io basto… io solo

Domar vo’ tant’orgoglio…

UBERTO

Un ferro… un’arme io voglio…

(Rodrigo gli dà la spada di un guerriero).

ELENA

Scenda in voi pace…

UBERTO e RODRIGO

Allarmi!

No… più non so frenarmi!

Mi guida il mio furor!

ELENA

Io son la misera,

Che morte attendo…

Su… su… scagliatevi…

Non mi difendo…

Se i giorni miei

Troncar vi piace,

Di orror la face

Si spegnerà.

UBERTO e RODRIGO

Vendetta! accendimi

Di rabbia il seno!

Nel petto ah versami

Il tuo veleno!

(Al rivale)

Vieni al cimento…

Io non ti temo…

L’istante estremo

Ti giungerà.

CORO

Ah! tanto ardire

Ne’ nostri petti

Oh come l’ire

Destando va!

(Rodrigo ed Uberto partono per un lato.

Elena li segue co’ guerrieri).

Grotta.

SCENA TERZA

Albina, indi Malcolm, poi Serano, infine coro

di Alpini.

ALBINA

Quante sciagure in un sol giorno aduna

L’avverso Ciel per tormentare un core!

Elena sventurata!

Per quanti cari oggetti

Palpitar ti vegg’io? né splende in cielo

Raggio di luce a dissipar quel velo,

Che covre il tuo destin…

MALCOLM

Elena… ah dimmi

Dov’è?

ALBINA

Di questo speco All’ingresso non era?

MALCOLM

Ah! no…

ALBINA

Del padre

Serve al cenno così? qui preservarla

Credea dall’ira ostil.

MALCOLM

Ah! ferve intanto

Terribil pugna… han le reali schiere

Penetrato nel clan: Rodrigo istesso

Con ignoto campione

È a singolar certame. Un cor pietoso

Mi fe’ sperar che qui trovata avrei

Elena mia. Salvarla, o in sua difesa

Perir volea.

ALBINA

Mosse le piante al fianco

Del fedele Serano, e poi…

(a Serano che giunge)

Ma… vieni.

Dimmi, e teco non riede

La figlia di Douglas?

SERANO

Del padre in traccia

Un suo cenno mi trasse: il vidi… oh Dio!

Smarrito in volto… “Ah vanne…

Vanne”, disse, “alla figlia, e la difendi.

Dille che al Re m’invio: se la mia morte

Può placar l’ira sua, se in questa guisa

Pace alla patria mia donar mi è dato,

Dille che il mio morir troppo è a me grato!”

MALCOLM

Come!

ALBINA

E ad Elena tu?

SERANO

Tutto narrai,

E già fuor di se stessa

Corre alla reggia.

ALBINA

Oh sciagurata! oh pena!

MALCOLM

Ah tu il sentier mi addita,

Che segnò l’infelice…

SERANO

Al par del lampo

Dal guardo mio sparì.

MALCOLM

Stelle spietate!

E a tante pene i giorni miei serbate?

Ah si pera: ormai la morte

Fia sollievo a’ mali miei,

Se s’invola me colei

Che mi resse in vita ognor.

Mio tesoro! io ti perdei!

Dolce speme del mio cor!

GUERRIERI

(di dentro)

Douglas! Douglas! ti salva!

ALBINA e SERANO

Quai voci!

MALCOLM

E chi si avanza?

GUERRIERI

Douglas dov’è?

MALCOLM

Che avvenne?

GUERRIERI

Ah! più non v’è speranza…

Cadde Rodrigo estinto…

ALBINA e SERANO

Avverso Ciel!

GUERRIERI

Ha vinto

Di Scozia il Re ….

MALCOLM

Che sento!

GUERRIERI

Ne insegue, e dà spavento

Già l’oste vincitrice…

MALCOLM

Che sento! oh me infelice!

Elena! amici! oh Dio!

Fato crudele e rio!

Fia pago il tuo furor!

Ah! chi provò del mio

Più barbaro dolor?

ALBINA, SERANO e GUERRIERI

Fato crudele e rio!

Fia pago il tuo furor.

(Malcolm parte co’ guerrieri).

ALBINA

E dove avrem noi scampo?

SERANO

Il mio destino

Io qui tranquillo attendo.

ALBINA

Oh qual sorse per noi giorno tremendo!

Stanza nella reggia di Stirling.

SCENA QUARTA

Giacomo, Douglas da guerriero, ma senza

elmo e spada, guardie, infine Bemam.

GIACOMO

E tanto osasti?

DOUGLAS

Io mi presento, o Sire

Volontario al tuo piè. Grazia non chieggo

Pe’ giorni miei. Di sanguinosa guerra

Arde la face, e la mia morte

Basta a spegnerla appieno. Ah! su la figlia,

E su quanti, pietosi al mio destino,

Mi difesero in campo,

Scenda la tua clemenza!

GIACOMO

E quale oggetto

Sotto ignote divise

Te condusse al torneo che celebrava

La mia vittoria? audace! a che ostentarmi

Tanto valor, tutti atterrando i prodi,

Che venner teco al paragon dell’armi,

E in aperta tenzon?

DOUGLAS

Sperai destarti

Delle antiche mie gesta

Rimembranza così: Giacomo solo,

Del precettor che l’educò alla gloria,

Riconoscer potea gli usati modi

Nel battagliar.

GIACOMO

Ma a cancellar non basta

I tuoi falli un tal passo.

(Alle guardie, che circondano Douglas)

Olà! serbate

Al mio sdegno costui.

DOUGLAS

Lo merito: attendo

In pace i cenni tuoi. Figlia infelice!

Sol mi è grave il morir, perché lasciarti

Deggio misera e sola!

GIACOMO

E ancor non parti?

(Douglas è condotto via).

Quanto all’alma tu costi,

Simulato rigor! son ne’ miei lacci

I più forti nemici… ah! se Malcolm…

Se quel rival…

BERTRAM

Signor, parlarti brama

Donna, molle di pianto, e quella gemma,

Che ornò tua destra, a me mostrando…

GIACOMO

(E dessa!)

Venga, ed a lei si taccia

Ch’io sono il Re. Ti attendo alle mie stanze:

Quanto voglio, saprai.

BERTRAM

Vado. (Parte).

GIACOMO

Quale distanza

V’ha dal mio core al tuo, donna! vedrai.

(Entra).

SCENA QUINTA

Bertram introduce Elena.

BERTRAM

Attendi: il Re fra poco

Ti ascolterà.

(Entra nelle regie stanze).

ELENA

Reggia, ove nacqui, oh quanto

Fremo in vederti! alle sventure mie

Tu fosti culla! assai di te più caro

Mi era l’albergo umil, dove or nel padre,

Or nell’oggetto amato

Pascea lo sguardo, e lor posava allato.

Ma qui sola! ov’è il Re? chi al regio aspetto

Mi guiderà? Se il generoso amico

Non m’ingannò, del genitor la vita,

Di Malcolm, di Rodrigo

Spero salvar… che sento!

Qual dolce suon! che amabile concento!

GIACOMO

(canta dalle sue stanze)

Aurora! ah sorgerai

Avversa ognor per me?

D’Elena i vaghi rai

Mostrarmi… oh Dio! perché?

E poi rapirmi, o barbara!

Quel don ch’ebb’io da te?

ELENA

Stelle! sembra! egli stesso! ah! qual sorpresa!

Né mi pose in obblio?

Di me si duole! e che sperar poss’io?

SCENA SESTA

Comparisce Giacomo: Elena va frettolosa ad

incontrarlo.

ELENA

Eccolo! amica sorte

Ti presenta a’ miei voti,

O generoso cor!

GIACOMO Da me che chiedi?

ELENA

Il tuo don non rammenti? ah sì, tu stesso

Mi guida al Re.

GIACOMO

Tu lo vedrai.

ELENA

Perdona

Alla impazienza mia: di un breve istante

Non indugiar: sacro dover di figlia

Al trono m’avvicina.

GIACOMO

Ebben, tu il vuoi?

E chi sa opporsi a’ desideri tuoi?

(Si appressa ad una gran porta in fondo, che

aprendosi lascia vedere quanto di magnificenza

possa comprendere la sala del trono).

SCENA ULTIMA

Bertram, Grandi e dame, che circondano il

trono, indi gli attori che verranno enunciati.

CORO

Imponga il Re: noi siamo

Servi del suo voler;

Il Grande in lui vantiamo,

Il padre ed il guerrrier.

ELENA

Ah! che vedo! qual fasto!

Ma fra tanto ov’è il Re? proni e devoti

Miro tutti, ma invano

Cerco chi sia fra questi il lor sovrano.

GIACOMO

Eppure è qui.

ELENA

Ma qual?… Stelle! ogni sguardo

È a te rivolto? il capo tuo coverto,

La piuma che dagli altri ti distingue…

Saresti mai?… gran Dio!

Deh avvera i dubbi miei…

GIACOMO

(indicando se stesso)

Il Re chiedesti? e al fianco suo tu sei.

ELENA

Tu stesso? ah! qual sorpresa! a’ piedi tuoi…

GIACOMO

Sorgi, l’amico io son: di mie promesse

Il fido esecutor; parla, che brami?

ELENA

Ah! non lo ignori… il genitor…

GIACOMO

Ebbene…

Il padre è reo, ma alla sua figlia il dono…

(Ad un suo cenno vien fuora Douglas)

Vieni Douglas… l’abbraccia… io ti perdono.

DOUGLAS

Ah figlia!

ELENA

Ah padre mio!

ELENA e DOUGLAS

Signor… deh, lascia…

GIACOMO

Obblìo

Tutto per te: tu, Lord Bothwel, riprendi

Gli stati tuoi.

DOUGLAS

Tutto il mio sangue in segno

Di grato cor…

GIACOMO

Appien contenta, il veggo,

Elena ancor non è: favella.

ELENA

Ah Sire!

I giorni di Rodrigo

GIACOMO

Egli? infelice!

Ah! non è più!

ELENA

Che ascolto! oh sventurato!

DOUGLAS

Oh amico sciagurato!

GIACOMO

Alla clemenza

Diedi abbastanza, e di giustizia or deggio

Dar rigoroso esempio. Venga Malcolm.

ELENA

Ascolta…

GIACOMO

Alcun non osi

Chieder grazia per lui.

ELENA

(Come salvarlo?)

MALCOLM

(viene tra le guardie)

(Elena! oh rio destin!)

GIACOMO

Giovane audace!

A me ti appressa: un mancator degg’io

Punire in te…

MALCOLM

Ah Prence! il fallo mio…

GIACOMO

Pietà non merta, e dell’error ben degna

Avrai tu pena.

(Depone la sua ostentata fierezza, lo alza,

lo abbraccia e gli appende al collo la sua

gemmata collana)

Ah sorgi, e questo sia

Pegno del mio favor.

Porgi la destra…

(unisce le destre di Elena e di Malcolm )

Siate felici, il Ciel vi arrida.

ELENA, MALCOLM e DOUGLAS

Oh stelle!

BERTRAM e CORO

Oh Re clemente!

GIACOMO

Altro a bramar ti resta?

ELENA

Io… Sire… qual piacer!… qual gioia è questa!

Tanti affetti in un momento

Mi si fanno al core intorno,

Che l’immenso mio contento

Io non posso a te spiegar.

Deh! il silenzio sia loquace…

Tutto dica un tronco accento…

Ah signor! la bella pace

Tu sapesti a me donar.

TUTTI col CORO

Ah sì… torni in te la pace,

Puoi contenta respirar.

ELENA

Fra il padre e fra l’amante

Oh qual beato istante!

Ah! chi sperar potea

Tanta felicità!

Beethoven: quattro quartetti con pianoforte

Ludwig van Beethoven

Quattro quartetti con pianoforte

Quartetto Beethoven

Disco 1 facciata A: Quartetto con pianoforte N.1 in mi bemolle maggiore
Disco 1 facciata B: Quartetto con pianoforte N.2 in re maggiore
Disco 2 facciata A: Quartetto con pianoforte N.3 in do maggiore
Disco 2 facciata B: Quartetto in mi bemolle maggiore OP.16

Scarica qui i quattro quartetti per pianoforte di Beethoven

Sebbene non cosi precoce compositore come Mozart — che a sei anni scriveva pezzettini piacevolissimi e a otto quei piccoli capolavori che sono le Sonate K.10-16 Beethoven produsse verso i dodici quindici anni alcuni lavori sui quali la critica, come vedremo, potrebbe benissimo soffermarsi indipendentemente dalla loro attribuzione ad un fanciullo chiamato Beethoven, ma che, essendo per l’appunto opera di Beethoven fanciullo, vengono studiati con molta attenzione e sono stati non di rado eseguiti. A meno di dodici anni di età Beethoven scriveva le Variazioni su una marcia di Dressler per pianoforte, tra i dodici e i tredici tre Sonate per pianoforte, a quattordici un Concerto in mi bemolle maggiore per pianoforte. A quindici anni componeva tre Quartetti per pianoforte, violino viola e violoncello che non vennero allora pubblicati, al contrario di quanto era avvenuto con le variazioni e con le Sonate, e che apparvero in edizione a stampa solo nel 1828, presso l’editore Artaria di Vienna. Non essendo stati classificati da Beethoven nel catalogo delle sue opere, i tre Quartetti furono elencati nella sezione “Opere senza numero d’opera” (Werke ohne Opuszahlen) del fondamentale catalogo beethoveniano Kinsky-Halrn, con il numero d’ordine 36: sono dunque noti come Quartetti VOo 36 n. 1, 2 e 3. Tutte le prime composizioni di Beethoven nascono sotto il segno del pianoforte: Beethoven era infatti un pianista di istinto, di virtuosismo ricco e impetuoso, ed intendeva formarsi il repertorio del pianista-conpositore, figura affermatasi negli anni tra il 1760 e il 1780 con Johann Christian Bach, Schobert, Htillmandel, Schroeter, Mozart, e soprattutto con Clementi. Il quartetto per pianoforte e archi non apparteneva però ad un genere consacrato e di lunga tradizione. Il primo esempio di quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello dovrebbe risalire a circa il 1778: e il Quartetto in mi bemolle maggiore dell’abate Joseph Vogler, che fu pubblicato a Parigi nel 1781 e che fu probabilmente noto a Beethoven. Non si conoscono esempi analoghi fino al 1785; ciò non significa che non ne siano esistiti in assoluto (i repertori bibliografici settecenteschi sono lacunosi), ma basta a dimostrare che il genere non si era ancora affermato. Erano invece comuni, diffusissime, sia le sonate per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello, sia le riduzioni per pianoforte e complesso d’archi (più spesso due violini e basso) di concerti per pianoforte, riduzioni che potevano essere eseguite anche nella formazione minima di pianoforte e tre archi. Nei suo tre quartetti Beethoven oscilla quindi fra la tradizione della sonata con accompagnamento e la tradizione del concerto, riuscendo solo a tratti ad individuare la nuova forma del quartetto concertante. Ciò non toglie però che Beethoven, a quindici anni, non sapesse dar prova di una eccezionale sensibilità storica, tentando appunto un genere nuovo, per il quale egli, fanciullo, non poteva assumere un modello sicuro, ma le cui potenzialità lo stimolavano alla creazione. I problemi compositivi del quartetto per pianoforte e archi furono poco più tardi risolti da Mozart, che nell’autunno del 1785 compose il Quartetto in sol minore K 478 e nel giugno del 1786 il Quartetto in mi bemolle maggiore K 493. Mozart era sui trent’anni, ed aveva raggiunto la piena maturità artistica. I tre Quartetti di Beethoven, non paragonabili ai due di Mozart, testimoniano tuttavia uno spirito di ricerca che li renderebbe comunque degni di passare alla storia, anche se non fossero opera di un ragazzo, e anche se quel ragazzo non si fosse chiamato Beethoven. Il Quartetto op. 16, come diremo meglio poi, non e una composizione originale per quartetto con pianoforte, ma una versione alternativa del Quintetto op. 16 per pianoforte e fiati. Beethoven non scrisse altri quartetti per pianoforte e archi e quindi le sue “esperienze sul genere” restano esclusivamente legate all periodo della sua prima formazione.

Quartetto WoO 36 n. 1

Adagio assai (mi bemolle maggiore, 2/4) – Allegro con spirito (mi bemolle minore, 3/4) Thema. Cantabile (mi bemolle maggiore, 2/4) – Var. I. — Var. II. – Var. III. Adagio – Var. IV. Tempo I – Var. V. (mi bemolle minore) — Var. VI. (mi bemolle maggiore) – Thema. Allegretto – Coda.
Nel suo primo Quartetto Beethoven adotta lo schema formale della composizione in due tempi, con adagio introduttivo al primo tempo. Si tratta di uno schema rarissimo, che Beethoven molto probabilmente mutuò dalla Sonata per violino e pianoforte K 379 di Mozart (pubblicata nel 1781), ma che avrebbe successivamente ripreso nelle Sonate per violoncello e pianoforte op. 5. Al contrario di quanto avviene con gli adagi introduttivi delle composizioni in tre tempi, l’adagio introduttivo delle composizioni in due tempi può essere molto ampio. L’Adagio del Quartetto WoO 36 n. 1 e di settanta battute, suddiviso in due parti, con ripetizione della prima parte. Le proporzioni monumentali dell’adagio introduttivo, che permettono di affermare la tonalità generale di mi bemolle maggiore, consentono a Beethoven di impiantare l’allegro nella cupa tonalità di mi bemolle maggiore. L’Allegro é di taglio nettamente sinfonico, quasi un tempo di sinfonia Sturm und Drang; la scrittura strumentale, che nell’Adagio era impostata sulle masse contrapposte del pianoforte e degli archi, a volta a volta protagoniste o accompagnanti, nell’allegro è a blocco unico, molto compatta. La forma e quella della cosiddetta forma-sonata (esposizione, sviluppo, riesposizione) ma, al contrario di quanto avviene nella forma-sonata più tipica, l’esposizione comprende un secondo tema suddiviso in due gruppi tematici. Il primo tema e in mi bemolle minore, il secondo in si bemolle minore. Mentre nell’Adagio introduttivo e nell’esposizione dell’Allegro si notano le felici capacita di invenzione tematica e la serrata forza discorsiva del Beethoven quindicenne, nello sviluppo si nota la sua inesperienza di compositore; lo sviluppo e infatti brevissimo, e consiste soltanto in una specie di intermezzo molto elementare, prima della riesposizione. La riesposizione non presenta caratteristiche degne di nota. Per il secondo tempo, come Mozart nella già citata Sonata K 379, Beethoven sceglie la forma del tema con variazioni. Il tema e esposto dal pianoforte, accompagnato dagli archi in modo molto schematico, e le prime quattro variazioni sono organizzate secondo un “cerimoniale”, più che secondo un’idea formale. In ciascuna di esse è protagonista uno strumento: nella prima il pianoforte, nella seconda il violino, nella terza la viola, nella quarta il violoncello. La quinta e la sesta variazione tendono invece a mettere in mostra il virtuosismo del pianista: grande agilità della mano sinistra nella quinta (in mi bemolle minore), agilità della mano destra nella sesta. Il tema viene quindi ripreso in una strumentazione diversa da quella dell’inizio, e cioè con gli archi non più in funzione di semplice accompagnamento. Segue una breve coda, ed il secondo tempo — inaspettatamente, dopo tanto sfoggio di virtuosismo — termina in “pianissimo”.

Quartetto WoO 36 n. 2

Allegro moderato (re maggiore, tempo ordinario) – Andante con moto (fa diesis minore, 3/4) – Rondò. Allegro (re maggiore, 6/8).
Lo schema formale del secondo Quartetto e quello, usuale, in tre tempi. Primo tempo in forma-sonata, anche in questo caso con secondo tema articolato in due gruppi tematici. Lo sviluppo e proporzionalmente assai più ampio di quanto non fosse nel primo Quartetto, ma anche in questo caso, più che di sviluppo dei temi esposti, si tratta di intermezzo che collega esposizione e riesposizione. La riesposizione è seguita da una coda: compare qui l’idea formale della coda che nell’equilibrio architettonico del primo tempo serve a bilanciare la brevità dello sviluppo, idea che diverrà più tardi prediletta da Beethoven. Ma in questa circostanza si tratta di un’idea più drammatica che formale, o vorremmo dire addirittura di un colpo di scena.
Il primo tempo tutto condotto con ritmi scattanti e balzanti, tutto brillante ed estroverso, si spegne su due accordi lungamente tenuti. (“mancando” e “pianissimo”, dice la didascalia), in rapporto cosiddetto di “cadenza plagale”, assai più raro e meno perentoriamente conclusivo del consueto rapporto di “cadenza perfetta”. La tonalità del secondo tempo, fa diesis minore, e abbastanza sorprendente, perché dopo un primo tempo in re maggiore l’ascoltatore si sarebbe aspettato un secondo tempo in sol maggiore o in la maggiore, o tutt’al più in si minore o in mi minore. La successione delle tonalità da anche in questo caso, come nel primo Quartetto, un colore tonale insolito e personale alla composizione. Anche la forma è insolita perché, al posto della consueta forma di canzone tripartita, Beethoven sceglie la forma-sonata, in una versione – riesposizione senza il primo tema – che molti anni più tardi diverrà basilare in Chopin. Beethoven introduce inoltre la variante timbrica del pizzicato degli archi (appena accennata, e solo in funzione di accompagnamento, nella prima variazione del secondo tempo del Quartetto n. 1 e nel primo tempo del Quartetto n. 2). Tutte queste caratteristiche testimoniano una volontà di ricerca, un’ansia di andare oltre il consueto ed il comune, che e ben tipica di Beethoven, ma che finisce per creare problemi compositivi non ancora risolubili dal ragazzo di quindici anni. Cosicché, a parer nostro, la qualità musicale della composizione non sembra corrispondere alle ambizioni ed all’importanza dei mezzi che vi vengono messi in opera. Il terzo tempo è un rondò, basato su un tema principale che preannuncia il tema popolaresco e scanzonato del finale della Sonata per pianoforte e violino op. 12 n. 1. Lo schema formale è quello, solito, del rondò a tre temi e sette episodi. Anche il terzo tempo, come il primo, finisce con un piccolo colpo di scena: il pianoforte, che aveva dominato con la sua agilità tutto il brano, non suona nelle ultime battute. E evidente che Beethoven, avendo inteso dare al terzo tempo il carattere di finale di concerto per pianoforte, preferisce terminare, come si usava nei concerti, senza la partecipazione del solista.

Quartetto WoO 36 n. 3 Allegro vivace (do maggiore, tempo ordinario) – Adagio con espressione (fa maggiore, 3/4) – Rondò. Allegro (do maggiore, tempo tagliato)

Il terzo Quartetto, e in particolare il primo tempo, dimostrano un’influenza delle sonate brillanti di Muzio Clementi: di tipo nettamente clementino e il primo tema del primo tempo, e la scrittura strumentale, basata sul predominio virtuosistico del pianoforte, ricorda quella delle sonate di Clementi con accompagnamento ad libitum di violino e violoncello. Gli ascoltatori riconosceranno facilmente due elementi tematici che, lievemente modificati, ritorneranno nel primo tempo della Sonata per pianoforte op. 2 n. 3, ed un tema, in sol minore, che ritornerà quasi identico nello stesso primo tempo della Sonata op. 2 n. 3. Il primo tempo del Quartetto è in forma-sonata, con due gruppi tematici a formare il secondo tema. Molto interessante lo sviluppo. Beethoven lo inizia al modo di un intermezzo, ma ne blocca subito il corso, dopo sole sei battute, per attaccare un vero e proprio sviluppo dei temi esposti nella prima parte. Di eccellente effetto e anche la transizione dallo sviluppo alla riesposizione, in un misterioso episodio a canone di otto battute. La riesposizione e abbreviata. Le proporzioni architettoniche del primo tempo (67 battute di esposizione, 43 di sviluppo, 46 di riesposizione) sono molto equilibrate, ed il progresso nel dominio della forma-sonata, rispetto ai primi due Quartetti, appare decisivo. Il secondo tempo e in forma di canzone, ed e basato su un tema già cosi tipicamente beethoveniano da poter essere ripreso, dieci anni dopo, nella Sonata per pianoforte op. 2 n. 1. E’ da notare, nella parte di mezzo, l’impiego solistico del violino e poi della viola: è da notare in quanto, come abbiamo avuto occasione di accennare, nei tre Quartetti il ruolo largamente preponderante e affidato al pianoforte. Il rondò finale non presenta caratteristiche formali particolari: e un rondò a tre temi e cinque episodi, formalmente più sommario del rondò del secondo Quartetto, e che si affida, più che all’elaborazione compositiva, alla forza trascinante del ritmo, in un andamento quasi da moto perpetuo.

Quartetto op. 16 Grave (mi bemolle maggiore, tempo ordinario) – Allegro, ma non troppo (mi bemolle maggiore, 3/4) — Andante cantabile (si bemolle maggiore, 2/4) – Rondò. Allegro, ma non troppo (mi bemolle maggio- 9 re, 6/ 8).

Il costume editoriale settecentesco e ottocentesco prevedeva che delle composizioni strumentali e delle opere teatrali di successo venissero pubblicate trascrizioni, complete o parziali, per diversi strumenti e complessi strumentali. E siccome, fino a quando non venne riconosciuto il diritto d’autore, chiunque poteva pubblicare trascrizioni di qualsiasi composizione stampata, in molti casi furono i compositori che, per evitare le malefatte dei mestieranti, prepararono essi stessi le trascrizioni o le fecero preparare, sotto il loro controllo, da abili artigiani. Quest’uso decadde progressivamente con l’invenzione e la diffusione della esecuzione riprodotta con mezzi meccanici (dischi, più tardi registrazioni), e le vecchie trascrizioni non solo vennero dimenticate, ma venne giudicata negativamente qualsiasi forma di trascrizione, anche dell’autore, che apparisse dettata da motivazioni editoriali. Oggi, dopo che la pubblicistica musicale e stata studiata con maggior attenzione, si tende a non fare più di ogni erba un fascio e a distinguere tra adattamenti, arrangiamenti, trascrizioni, versioni alternative. Ed è evidente che le quattro suddivisioni indicano anche quattro diversi gradi di dignità artistica. Il Quintetto op. 16 e uno dei pochissimi lavori — altri sono, ad esempio, la Sonata op. 14 n. 1 per pianoforte, il Trio op.11, il Settimino, la Seconda Sinfonia, il Concerto per violino che Beethoven pubblico in più versioni. Si potrebbe certamente discutere se e quando Beethoven intendesse la seconda versione come trascrizione e quando come versione alternativa. Ma noi, senza tentare qui di addentrarci in una materia che per essere trattata adeguatamente vorrebbe molto spazio, ci limiteremo a dire che, a parer nostro, il Quartetto op. 16 per pianoforte, violino, viola e violoncello è da intendere come versione alternativa del Quintetto op. 16 per pianoforte, oboe, clarinetto, o corno e fagotto. Ciò non significa che l’op. 16 non sia da preferirsi nella versione per quintetto: la specificità del medium timbrico non e elemento secondario della composizione, ed il rapporto pianoforte-fiati è ben diverso dal rapporto pianoforte-archi. La versione per quartetto è pero pienamente legittimata dalla firma di un compositore, che molto di rado si lasciò convincere a preparare diverse versioni delle sue opere, e che di solito si rassegnò agli usi editoriali senza mettervi mano in prima persona. Il Quintetto op. 16 venne composto tra il 1796 e il 1797, e fu eseguito a Vienna il 6 aprile 1797, con Beethoven al pianoforte, nel corso di un concerto tenuto dal violinista Ignaz Schuppanzig in una sala della rosticceria Jahn. La pubblicazione ebbe luogo solo nel 1801, presso l’editore Mollo di Vienna, con dedica “al principe regnante di Schwarzenberg”. La versione per quartetto dovrebbe essere coeva a quella per quintetto, e la pubblicazione delle due versioni fu simultanea. Non si ha notizia di esecuzioni pubbliche della versione per quartetto.

Sebbene scritto nel 1796-97, il Quintetto op. 16 adotta forme e linguaggio più tradizionali di quelli delle Sonate op. 2 per pianoforte (1794-95) o delle Sonate op. 5 per violoncello e pianoforte (1796). Beethoven sentiva il problema dell’originalità creativa prima di tutto come problema dei generi, e quando affrontava un genere nuovo preferiva basarsi su qualche modello insigne invece che sulle sue scoperte in altri generi. Il Quintetto op. 16 ( e il Quartetto, nel quale la struttura compositiva e linguistica del Quintetto non viene minimamente modificata) assume a modello il grande Quintetto K 452 di Mozart, composto nel 1784. Di qui il carattere marcatamente mozartiano delle strutture formali e dei temi, nonché l’andamento colloquiale di tutta la composizione. Il problema dei generi significava infatti anche, per Beethoven come per Mozart, problema di pubblico. Alla fine del Settecento la sonata per pianoforte solo o per pianoforte e uno strumento erano di norma indirizzate ai dilettanti colti e ad un loro ristretto nucleo, familiare e sociale, di poche decine di persone. La sinfonia e il concerto si rivolgevano ad un pubblico di grande salone aristocratico o di piccolo teatro, valutabile intorno alle cinquecento persone. Il quintetto con pianoforte e le formazioni di sestetto, settimini, ecc. erano pensati per piccole sale aperte e un pubblico eterogeneo e non pagante (i cosiddetti Dukaten-Concerte, primo esempio di concerti da camera a pagamento, iniziano a Vienna verso il 1815), e costituivano il momento culminante di un intrattenimento vario e lungo. Il pubblico che ascoltava un complesso da camera tendeva a stabilire al suo interno un rapporto sociale mondano si, ma ancora comunitario, non formale ed anonimo come quello che si instaurava tra gli ascoltatori di una sinfonia, per i quali il momento comunitario era puramente spirituale e riguardava solo l’ascolto. Il rapporto comunitario era del resto, evidentemente, meno profondo e meno impegnativo quanto più numeroso ed eterogeneo era il pubblico: di qui la minore audacia del Quintetto o del Settimino, e più tardi della Prima Sinfonia, rispetto alle coeve sonate per pianoforte. Beethoven, sensibilissimo al problema del pubblico nella sua giovinezza, seppe conquistare i viennesi proprio perché produsse lavori che nello stesso tempo interessavano, per la loro originalità, e non sconcertavano, per i loro diretti rapporti con i generi, i diversi strati di ascoltatori ai quali erano di volta in volta indirizzati. Con il Quintetto op. 16, e con il Settimino op. 20, che fu l’altro suo grande successo mondano a Vienna, Beethoven si qualificò dunque presso un pubblico intermedio tra quello del salotto e quello del teatro, prima di affrontare la sinfonia, con la quale avrebbe esordito solo alla fine del secolo, molti anni dopo essersi stabilito nella capitale austriaca ed alla conclusione di un “assedio” alla società viennese studiato con la penetrante intelligenza di un vero stratega.

Piero Rattalino

Mozart: Concerti KV449, KV491

Ecco un’altra splendida incisione della musica di Mozart della Deutsche Grammophon; Due concerti interpretati dalla Camerata academia des Salzburger Mozarteums, direttore e solista Geza Anda.

Nella prima facciata ti propongo il concerto per piano e orchestra Nr. 14 in mi bemolle maggiore K.449,
1 allegro vivave
2 andantino
3 allegro ma non troppo


Nella seconda facciata il concerto per piano e orchestra in do minore Nr. 24 K.491
1 allegro
2 larghetto
3 allegrett

Scarica qui i due concerti di Mozart

Bach: Das Orgelwerk Vol. 10

Bach

Das Orgelwerk, Organ Works, L’oeuvre d’orgue

Michel Chapuis
on the Andersen Organ of the church of the redeemer
Kopenhagen

Scarica i concerti per organo di Bach raccolta n.10

Disco 1 lato A

BWV 599
BWV 601
BWV 602
BWV 603
BWV 604
BWV 605
BWV 606
BWV 607
BWV 608
BWV 609
BWV 610
BWV 611
BWV 612

Disco 1 lato B
BWV 613
BWV 614
BWV 615
BWV 616
BWV 617
BWV 618
BWV 619
BWV 620
BWV 621

Disco 2 lato A,
BWV 622
BWV 623
BWV 624
BWV 625
BWV 626
BWV 627
BWV 628
BWV 629
BWV 630
BWV 631

disco 2 lato B
BWV 632
BWV 633
BWV 634
BWV 635
BWV 636
BWV 638
BWV 639
BWV 640
BWV 641

Rossini:La Pietra del Paragone

Non aprire piu’ portona

O tua testa andar pedona!
Che vuol dir questa canzona
Che vuol dir questa canzona!

E’ etrusco!

Ti propongo un gioiellino di Rossini: La pietra del Paragone
Un’opera poco conosciuta ma deliziosa.

Scarica “La Pietra del Paragone” di Rossini

LA PIETRA DEL PARAGONE.
Melodramma giocoso in due atti suddiviso in quattro parti di Luigi Romanelli.

La marchesa Clarice Fiorenza Cossotto
La baronessa Aspasia Silvana Zanolli
Donna Fulvia Eugenia Ratti
Il conte Asdrubale Ivo Vinco
Il cavalieri Giocondo Alvinio Misciano
Macrobio Renato Capecchi
Pacuvio Giulio Fioravanti
Fabrizio Franco Calabrese

Cori di giardinieri, ospiti, cacciatori e soldati del conte.

L’azione si finge in un popolare e ricco borgo d’Italia e particolarmente in una amena villa del conte Asdrubale. Epoca 1680.
Orchestra e coro del teatro Alla Scala
Direttore Nino Sanzogno
Registrazione dal vivo effettuata il 6 giugno 1959 presso la Piccola Scala di Milano.
Ventenne appena era Gioachino Rossini, quando La Scala gli aperse le illustri
porte per La pietra del paragone. Nel biennio precedente il giovanissimo autore già aveva dato alle scene sei opere: non solo brevi e scorrevoli opere buffe, ma anche due lavori d’impegno drammatico quali Ciro in Babilonia e Demetrio e Polibio (e torna opportuno ricordare il singolare ritmo, senza precedenti nella storia dell’attività’ creatrice di Rossini: il quale, dopo aver scritto una quarantina diopere nell’arco di men che un ventennio, altri quaranta ne trascorse in pacifico ozio, sporadicamente interrotto da qual- che rare pagina extra teatrale; e parole esplicite su tale silenzio ebbe Richard Wagner, recatosi in visita d’omaggio a Rossini nella sua dimora parigina di Passy a marzo del 1860: “Un crime! Vous ignorez vous meme loul ce que vous auriez tire de ce cerveau-la’”.
Sia pure in teatri minori, le sei precedenti opere rossiniane avevano raccolto buoni successi a Venezia, Bologna, Roma e Ferrara, ma non ancora sufficienti a legittimare, secondo l’impresa che gestisce La Scala, un invito del grande teatro milanese: “Rossini – scriverà poi Luigi Romanelli, il librettista della Pietra del paragone “non aveva dato prove bastanti per essere annoveralo nella classe dei musicisti di cartello”. Furono le insistenze di due celebrali cantanti del momento, il contralto Maria Marcolini e il basso Filippo Galli, che avevano preso parte ad alcune esecuzioni di opere rossiniane, a vincere le comprensibili esitazioni dell’impresa. E la nuovissima Pietra del paragone, protagonisti appunto la Marcolini e il Galli, andò in scena il 28 settembre 18l2, riscuotendo un successo tanto clamoroso che il generale francese comandante il presidio di Milano esento’ Rossini degli obblighi del servizio militare: vantaggio non trascurabile, specie in quel 1812 segnato dalla disfatta napoleonica in Russia.
Di sera in sera il successo non solo ebbe a ripetersi ma subì anzi un progressivo incremento, al punto che nell’ ultima replica si registro’ il bis di ben sette pagine dello spartito. Era questa rappresentazione la cinquantatreesima, cifra altissima anche in rapporto alle costumanze del tempo, e che avrebbe assicurato a Rossini il primato nelle repliche scaligere, se negli anni precedenti non avessero toccato “ex-equo” quota 54 tre opere di Stefano Pavesi, di Luigi Mosca e di Simone Mayr: nomi oggi confinati nelle pagine dei lessici, ad eccezione dell’ultimo, il bavarese-bergamasco maestro di Donizetti in tempi recenti oggetto di alcune riproposte sceniche “il record assoluto sarà appannaggio nel 1842 di Giuseppe Verdi con le 57 rappresentazioni di Nabucodonosor a rivalsa del non lontano fiasco di Un giorno di regno. Ripresa in altri teatri milanesi e di diverse Città italiane, La pietra del paragone tornò alla Scala dieci anni dopo, nel 822, con 27 repliche, e ancora nel 1829 per sette sere. Poi scomparve, al pari di molte altre opere rossiniane; se 1’avvento del pesarese aveva respinto nell’oscurità i vari Pavesi, Mosca. Mayr ed altri musicisti della medesima generazione – i cartelloni dei teatri erano allora costituiti esclusivamente di opere contemporanee. le successive affermazioni di Bellini, di Donizetti, di Verdi e, infine, dei maestri detti “veristi” condussero via via al paradossale risultato di considerare Rossini quale autore di una sola opera, l’intramontabile e onnipresente Barbiere di Siviglia, mentre rare occasioni celebrative riproponevano talvolta altre opere rossiniane, e solo i massimi teatri erano in grado di affrentare gli oneri artistici e finanziari di allestire il Gugliemo Tell “ma circa il capolavoro drarnmatico di Rossini la stessa Scala osservò un lungo silenzio dal 1899 al 1930”.
Il compito di ricordare agli italiani che Gioachino Rossini non era l‘autore del solo Barbiere di Siviglia spettò per decenni alle bande musicali, che spesso iscrivevano nei loro programmi nuorese sinfonie di altre opera rossiniane. Vi si aggiunse poi l’ascolto integrale di alcuni e dimenticati spartiti, messi in onda dalle stazioni radiofoniche deII’ Eiar; tradizione continuata nel dopoguerra dalla Rai: del recente 1976 e la riproposta di Torvaldo e Dorliska, eseguita ad esclusivo uso radiofonico, con i complessi milanesi della Rai, nella direzione di Alberto Zedda. E le dimenticate opere rossiniane gradualmente tornarono anche sulle scene: tappa significativa quella del Maggio Fiorentino 1952 che integralmente dedicato al maestro pesarese vide tra gli altri il ritorno della Pietra del paragone, direttore Gabriele Santini, nella regia di Anton Giulio Bragaglia. Quattro anni dopo, a Santo Stefano del ’56, si inaugurava a Milano la Piccola Scala con ll matrimonio segreto dl Cimarosa, diretto da Sonzogno. e nella regia di Giorgio Strehler; cui faceva seguito, ricorrendo il bicentenario mozartiano Così fan tutte, che vedeva il compianto Guido Cantelli nelle congiunte mansioni di direttore e di regista. Assente in quella prima stagione, Rossini fu spesse ospite nelle successive, con ll Signor Bruschino, ll Turco in Italia (recato anche al festival di Edimburgo), Il Conte Ory, e infine La pietra del paragone, andata in scena il 29 maggio 1959 la registrazione venne effettuata nella replica del 6 giugno). Quell’ edizione della Pietra del paragone fu conforme al tipico, signorile livelle che contrassegno l’aureo periodo iniziale della Piccola Scala, i cui spettacoli erano in competizione, spesso vittoriosa, con i simultanei allestimenti della “grande” . E i nomi stessi degli interpreti ne sono eloquente testimonianza: dirigeva Nino Sanzogno, mentre Ia regia, sulle sfondo delle scene di Mario Chiari, era affidala a un artista di rara presenza nel teatro lirico quale Eduardo De Filippo. La coppia protagonista della marchesa Clarice e del conte Asdrubale era impersonata del giovanissimo mezzo soprano Fiorenza Cossotto – che due anni innanzi aveva esordito alla Scala in un breve ruolo nei Dialoghi delle Carmelitane – e dal basso Ivo Vinco (i due cantanti tramuteranno più lardi nella realtà della vita ll vincolo coniugale preannunziato nella finzione scenica); e mentre di sicuro affidamento e già saldamente affermati erano gli altri interpreti, da Eugenia Ratti a Silvana Zanolli, da Flenato Capacchi a Franco Calaorese, a Giulio Fioravanti e ad Alvino Misciano. Accolta da caldo successo e dal piano consenso della critica. quell’edizione ebbe cinque repliche, secondo l’allora corrente “standard” della Piccola Scala.
Ma, se i familiari tornavano agli assidui dei concerti bandistici, ed anche orchestrali, i titoli dl parecchie opera rossiniane, grazie all’ascolto delle sinfonie popolarissime ad esempio, della Gazza ladra, dell’italiana in Algeri, del Tancradi, della Semirarmide e del Guglielmo Tell, solo gli eruditi nello specifico settore erano al corrente dell’esistenza di una dimenticata Pietra Del paragone. E ciò per un sernplice motivo: pochi mesi dopo la prima scaligera – e ci furono di mezzo anche “L’occasione fa l’uomo ladro” e “Il signor Bruschino” – Rossini accedeva a un altro grande teatro italiano, la Fenice di Venezia, con il Tancredi, melodramma eroico; stretto dall’assillo del tempo, il musicista alle prese con tre opere scritte in rapidissima sequenza, non ebbe scrupoli nel trasferire tale e quale alla nuova opera la sinfonia della Pietra dal paragone, da allora in poi indicala a diffusa coma la sinfonia del Tancradi. Ed altri prelievi compi’  l’autore dall’opera dal suo esordio scaligero: tra i quali l’aria di Clarice “Eco pietosa…” che si ritroverà nella canzone del salice nell’Otello, e il temporalino dell’atto secondo, trasferito di peso ne l’occasione fa il ladro e progenitore dal consimili, innocui eventi meteorologici del Barbiere e della Cenerentola, mentre nubi più minacciose si addenseranno poi sul Guglielmo Tell.
“Melodramma giocoso” aveva definito La pietra del paragone il librettista Romanelli quasi emulando la qualifica di “dramma giocoso” conferita da Lorenzo Da Ponte al Don Giovanni di Mozart.
Non si dirà certo che La pietra del paragone attinga la vertiginosa altezze e la sovrumana tensione drammatica del capolavoro mozartiano, ma a sua volta essa valica a tratti le frontiere del “giocoso”: e piuttosto una commedia musicale a lieto fine. un’opera del tipo che sarà poi detto semiserio; non è una standardizzata farsetta di settecentesco modello. ma anche si accende di accenti elegiaci che si potrebbero dire pre-bielliniani, ad esempio nella citata aria di Clarice, nella successiva cavatina del conte “Se certo io non sapessi…” e nel seguente duetto tra i due futuri sposi.
Mentre al dinamico e inconfondibile meccanicismo ritmico, tipico del Rossini “buffo” , sono invece improntati i concerti che suggellano i due atti, autentici banchi di prova per i venturi, analoghi cimenti dell’italiana in Algeri, del Barbiere e della Cenerentola.
Opera semi-seria, dunque, ma anche commedia d’ambiente e di satira, con una
puntuale delinaeazione di alcuni caratteri, al punto che sui convenzionali lineamenti della coppia protagonista, delle altre due dame a del probo Cavalier Giocondo il tenore, che in quest’opera riveste un compito accessorio, prevalgono la realistica verità e le psicologiche connotazioni di due personaggi detti “minori”: Pacuvio poeta ignorante e Macrobio giornalista imperito, presuntuoso e venale.
Le pesanti allusioni alla classe giornalistica non adontarono tuttavia il cronista musicale del Corriere milanese, l’unico quotidiano pubblicato a Milano nel periodo napoleonico, che all‘indomani della prima scaligera scrisse: “Rossini si distingue dalla moltitudine degli odierni compositori per un colorite splendido e vivace, per una certa misurata sobrietà nelle cantilene, che sembra tenere la via di mezzo tra la robustezza tedesca e la melodia italiana…”.
Assecondate dalla pronta genialità del musicista, il Romanelli aveva indubbiamente fatto tesoro dei modelli goldoniani ad esempio nel maccheronico italiano escogitato per il seducente mercante turco – cioè Asdrubale in persona, travestito alla stregua dei due mozartiani ufficialetti di Così fan tutte – e giunto per esigere l’estinzione di un suo credito che ridurrebbe in povertà il facoltoso conte; appunto la pietra del paragone, che gli consentirà la scelta fra le tre dame che aspirano a divenirne la moglie. Il mercante vorrebbe porre sotto immediato sequestro i beni del conte, con largo uso di sigilli: “Sigillara, sigillara”, egli ripete con tanta frequenza nel concertato conclusivo dell’atto primo, che i milanesi – e lo conferma Stendhal – finirono per tramutare in Sigillara, nel familiare linguaggio, il titolo stesso dell’opera.
Se tale strambo italiano riecheggia quello dell’altrettanto strambo mercante armeno nella Famiglia dell’antiquario di Goldoni, l’ombra del commediografo veneziano si avverte anche nei parti letterari di Pacuvio, emule del Poeta fanatico e del suo servitore Brighella.
Fecondata dall’argento vivo di Rossini la canzone di Pacuvio “ombretta sdegnosa del Mississippi” sopravvisse a lungo anche dopo il declino delle fortune dell’opera e venne ricordata da Antonio Fogazzaro nel sue romanzo Piccolo mondo antico(1895), poi rivendicato dall’omonimo film di Mario Soldati (1941). Ai Lineamenti comici e sentimentali della Pietra del paragone si affianca qui una terza componente: quella della parodistica ironia, E non solo in quest’arietta, ma ancora quando il conte rifà il verso ai sospiri della non ancor amata Clarice ripetendone in distanza le parole, e simulando trattarsi del naturale fenomeno dell’eco: procedimento frequente nella rinascimentale polifonia quanto nei prossimi rnelodrammi secenteschi, o ancora nella solidarietà del giardiniere nei riguardi del conte, manifestata nel coro “Il conte Asdrubale – dolente e squallido”, che palesemente si fa gioco della paludata seriosità propria delle classiche opere serie. Procedente dall’ultimo Settecento, La pietra del paragone anticipa cosi tratti ed accenti di caratterizzante parodia che diverranno emblematici dei primi decenni del Novecento

Guido Piamente

Mozart: Concerto per violone e orchestra K.218 – K.219

Concerto pour violon et orchestre n 4 K.218 en re majeur

1 mouvement: Allegro
2 mouvement: Andante cantabile
3 mouvement: Rondò (andante grazioso)

Concerto pour violon et orchestre n 5 K.219 en la majeur


1 mouvement: Allegro aperto
2 mouvement: Adagio
3 mouvement: Tempo di minuetto


Michele Auclair violon
Orchestre philharmonique da Stuttgart
Direction: Marcel Couraud

Scarica il concerto di Mozart

Beethoven: Sinfonia N.3 in mi bemolle maggiore Op.55 “Eroica”

Beethoven
Sinfonia N.3 in mi bemolle maggiore Op.55 “Eroica”
Orchestra sinfonica di Utrecht
Direttore d’orchestra Ignace Neumark

Scarica qui l’Eroica di Beethoven

Nel 1920 Ferruccio Busoni, scrisse un saggio molto personale e poco noto, dal titolo “ Che cosa ci ha dato Beethoven? “. Accingendosi ad ascoltare questa sinfonia oltre 150 anni dopo la sua composizione, può essere giusto riflettere su ciò che significa Beethoven per noi oggi; proprio perché la Terza Sinfonia rappresenta una svolta nell’arte di Beethoven e in essa sono introdotti per la prima volta quegli elementi che oggi noi consideriamo più tipici della sua arte.
Rileggiamo ciò che scrive Busoni: “Con Beethoven l’elemento umano appare per la prima volta nella musica come soggetto principale …. Il suo tormento forse non é altro che l’arduo tentativo di tradurre emozioni umane, e cioè emozioni talvolta extramusicali, in forme musicali. Spesso egli riuscì nel suo intento, ma in questo modo la musica venne trasportata in una sfera diversa da quella in cui si era mossa fino a quel momento” G1i ideali umani di Beethoven sono elevati e puri, continua Busoni, sono gl’ideali degli uomini giusti di ogni tempo e paese: 1’aspirazione alla libertà, la redenzione attraverso 1’amore, la fratellanza universale. Liberté, Egalité, Fraternité: Beethoven e un prodotto della Rivoluzione Francese, è il primo grande musicista democratico . Ed infine Busoni così risponde alla domanda che si era posta nel titolo del suo saggio: L’onesta è una conditio sine qua non nella creazione delle composizioni di Beethoven ; il secondo elemento proprio di Beethoven è la sconfitta del virtuosismo dinanzi alle ” idee”.
Ecco dunque qual é, per l’uomo moderno, l’aspetto essenziale dell’arte di Beethoven: e l’arte di un compositore il cui scopo non e più quello di sbalordire il pubblico con una serie di virtuosismi. Il grande ascendente che Beethoven esercito nei suoi ultimi anni sulla nuova generazione romantica capeggiata da Robert Schumann ed E. T. A. Hoffman, deriva forse da questo desiderio di porre in primo piano l’espressione di emozioni e di idee. I suoi predecessori si erano dovuti troppo spesso preoccupare del1’effetto che la loro musica avrebbe suscitato nel loro mecenate e sulla reazione, utile o dannosa, che ne sarebbe derivata. Anche Beethoven scrisse musica d’occasione (in specie l’Ouverture Consacrazione della casa e alcuni dei primi brani di musica da camera) ma essa non e da collocare tra le sue prove veramente impegnative.
Per noi Beethoven costituisce ormai un punto fermo nella storia della musica, ma per i suoi contemporanei egli era un ribelle; solo alcuni tra loro si resero conto che con lui finiva un’era della cultura e ne iniziava una nuova. Cosi i romantici poterono sostenere che Beethoven era il più grande dei romantici, la personificazione stessa della musica, mentre in seguito analisi più spassionate ce lo hanno mostrato come un classico ligio alle regole.
Alcuni critici eminenti hanno dimostrato che le prime composizioni di Beethoven sono un prodotto tipico di quello stesso periodo che ispiro la poetica dello Sturm und Drang. Fino alla Terza Sinfonia i lavori di Beethoven nascono nell’atmosfera del Werther di Goethe e dei Masnadieri di Schiller.
Ma, proprio come Goethe e Schiller superarono queste loro opere giovanili e procedettero con crescente rigore formale verso lavori di portata rinnovatrice, anche Beethoven subì una trasformazione nel suo stile musicale quale raramente é dato osservare nella storia della sinfonia e tanto meno della musica in generale. La Terza Sinfonia realizza di colpo questo. trapasso; come scrive Paul Henry Lang 1’Eroica rimpicciolisce ogni altra composizione che le venga messa a confronto per la sua arditezza di concezione, per il respiro della realizzazione, per la profondità della costruzione logica. Lo stesso Beethoven non raggiunse mai più simili vette di accesa fantasia; scrisse altre opere, forse maggiori, ma in nessun’altra abbraccio in tal modo l’intero universo . La storia della dedica originale di questa sinfonia e ben nota.
Dedicando la sinfonia “ Alla memoria di un grand’uomo “ Beethoven non dovette cambiare il carattere della sua composizione. La Terza non é una biografia musicale, come lo e per esempio la musica a programma dell’Ein Heldenleben di Richard Strauss, ed infatti alla marcia funebre seguono lo scherzo ed il finale con variazioni. Secondo Paul Bekker, biografo di Beethoven, la morte del generale britannico Abercromby nella battaglia di Alessandria del 21 marzo 1801 fu considerata dagli amici del compositore _ come la fonte d’ispirazione per la marcia funebre. E quindi probabile che solo il primo tempo sia da ricollegarsi a Napoleone. A quanto risulta l’idea di questa sinfonia risale all’anno 1798, quando il generale Bernadette, durante un soggiorno a Vienna, suggerì a Beethoven l’idea di scrivere qualcosa in onore di Napoleone; tuttavia, benché esistano tracce di abbozzi anteriori, la sinfonia fu composta nel 1803-1804 ed eseguita per la prima volta in pubblico il 7 aprile 1805. La sinfonia inizia con accordi maestosi, seguiti immediatamente dall’enunciazione del tempo principale. Questo iniziale Allegro con brio fu giudicato troppo lungo da qualche ascoltatore del tempo, poiché esso ha uno sviluppo più ampio di quel che non fosse nella tradizione. L’orchestrazione presenta diverse voci a solo, conferendo, per esempio, autonomia al contrabbasso e una funzione nuova e molto importante ai timpani. La marcia funebre è un brano indimenticabile, unico nella storia della musica orchestrale. Alcuni critici hanno sollevato delle obiezioni perché ad essa segue un allegro Scherzo, ed hanno suggerito di invertire l’ordine dei due tempi; ma simili arbitrii sono da considerarsi eresie.
Il Finale, nello stile delle variazioni del Settecento, presenta uno dei temi prediletti da Beethoven; esso ricorre già nel finale del Prometeo, nelle Contraddanze e nelle Variazioni per pf Op.35
Alfred R. Neumann
La terza sinfonia di Beethoven (1770 – 1827) in Mi bemolle maggiore op. 55 detta “Eroica” fu composta fra il 1802 e 1804 ed eseguita nell’ agosto 1804 a Vienna.
La sinfonia fu inizialmente scritta per Napoleone Bonaparte e rappresenta la sintesi di tutta l’aspirazione all’epos riscoperta negli anni della rivoluzione. In essa si avverte la volontà di tenere insieme la musica e la realtà che già era stata avvertita , se pur in forma primitiva, nella pièce à sauvetage, nella marcia, nell’inno e nel pezzo strumentale a programma.
Beethoven, che come Hegel aveva visto nel generale corso “cavalcare lo spirito del mondo” , scrive una dedica al Bonaparte, dedica che in seguito disconoscerà in un impeto di sdegno deluso dopo che Napoleone si sarà fatto incoronare imperatore. Proprio per questa delusione la sinfonia sarà quindi definitivamente intitolata (in italiano) “Sinfonia Eroica dedicata al sovvenire di un grand’uomo”.
Il definitivo dedicatario sarà il Principe di Lobkowitz, un aristrocratico viennese appassionato di musica e buon violinista dilettante che ne ospitò nel proprio palazzo la prima esecuzione. La Sinfonia Eroica si presenta con grande solennità storica. Beethoven ricerca di proposito il luogo comune tematico: il primo tema, avvicinato ad una lunga teoria di temi in mi bemolle ripetuto innumerevoli volte in un isolamento statuario, lascia scoperti, volutamente, i dati di partenza; il tema finale, che era già stato impiegato nell’ultimo episodio delle Creature di Prometeo con numerose variazioni di pianoforte, viene inserito per far comprendere meglio la nuova e grandiosa maniera del costruire.
Le dimensioni complessive dell'”Eroica” (la più lunga sinfonia scritta sino a quel momento) sono superate solamente dalla Nona Sinfonia. Il volume dell’orchestra è vibrante e per la prima volta in una sinfonia vengono usati tre corni e i singoli accordi sono ricchi di sforzati di notevole evidenza.
La trasfigurazione epica raggiunge il massimo nella “Marcia funebre” con i rulli dei timpani, le trombe dal suono apocalittico, il fugato centrale e la melodica divagazione della coda. Il manoscritto originale è andato perduto ma esiste una copia riveduta dall’autore nell’archivio degli “Amici della Musica” di Vienna.

Schubert: Notturno – Sonata Arpeggione

Franz schubert

Lato 1
Adagio per pianoforte, violino e violoncello in mi bem magg. Op.148
D.897 “Notturno”

Trio di Milano
Bruno Canino pianoforte
Cesare Ferraresi violino
Rocco Filippini violoncello”

Sonata in La minore per arpeggione e pianoforte D.821
1. allegro moderato

Lato 2

Sonata in La minore per arpeggione e pianoforte D.821
2. Adagio
3. Allegretto

Rocco Filippini arpeggione
Bruno Canino pianoforte

Scarica il Notturno e la sonata arpeggione di Schubert

Prima di occuparci del Notturno per pianoforte,  violino e violoncello esamineremo, seguendo  l ’ordine cronologico, una pagina isolata nella  produzione schubertiana, la Sonata in la minore  D. 821 per arpeggione (violoncello) e pianoforte.
Fu composta a Vienna nel novembre 1824,  su commissione di Vinzenz Schuster, un violoncellista  di cui non sappiamo quasi nulla, se non  che si interessò del nuovo strumento inventato  dal liutaio viennese Johann Georg Stauffer  (1778-1853) e da questi presentato a Vienna nel  1823. Questo strumento, noto con i nomi di  “guitarre d’amour”, “chitarra-violoncello” o  “anche Bogen·-Guitarre ” (chitarra ad arco), aveva  forma simile a quella di una grande chitarra a  sei corde (accordate mi-la-re-sol-si-mi). Diversamente che in una chitarra, pero, esse erano tese  su un ponticello e poste in vibrazione con l ’arco.
Un annuncio pubblicato sulla “Allgemeine _ Musikalische Zeitung” del 30 aprile 1823 riconosce tra le prerogative del nuovo strumento una grande estensione, e nota che ‘per ciò che riguarda la bellezza, la pienezza e la dolcezza del suono si avvicina nel registro acuto all ’oboe, in quello grave al corno di bassetto. . .”. Nel  suo pezzo Schubert fa uso delle possibilità legate  all ampia estensione dello strumento, sfruttandone invece pochissimo quelle riguardanti l ’esecuzione di accordi. E ’ curioso notare che il nome di “arpeggione” si trova solo nel manoscritto della sonata schubertiana, cui é rimasto legato come un soprannome fin da quando fu pubblicata. nel 1871. Oggi la “chitarra d’amore”, che scomparve abbastanza presto, é normalmente sostituita da un violoncello.
Di solito viene sottolineato con una certa severità il carattere occasionale, “mondano “, della Sonata in la minore: é evidente che essa rivela un impegno compositivo diverso da altre pagine contemporanee di Schubert e che non può, ad esempio, reggere il confronto con due capolavori dello stesso 1824 come i Quartetti in la minore D.804 e in re minore D.810. Non vi cercheremo dunque lo Schubert maggiore; ma, ciò premesso, potremo ascoltarla senza assumere il cipiglio di un troppo severo censore, e apprezzare cosi l’elegante scioltezza della scrittura, la brillante piacevolezza, la rara felicita melodica di molte idee, il gusto un
po’ spensierato e disimpegnato del ‘far musica “. L ‘inizio e subito assai seducente, con la grazia malinconica della prima idea, con la suggestione che nasce dal suo spontaneo fluire. La seconda idea ha un carattere più marcatamente leggero e conversevolmente brillante: su questa base lo svolgimento del primo tempo,
Allegro moderato, scorre via senza troppi problemi. Il successivo Adagio è una sorta di breve intermezzo, destinato a porre in evidenza le qualità cantabili dello strumento ad arco con una garbata e piacevole vena melodica; ad esso si collega senza interruzione il conclusivo Allegretto. Esso é costruito in forma assai semplice su due idee fondamentali: la prima (A) nella sua distesa contabilità rivela vistose affinità con quella iniziale dell ’Allegro moderato, la seconda (B) ha un piglio brillante. Una terza idea (C) dal sapore garbatamente popolareggiante compare una volta sola tra il ricorrere delle altre due, secondo alternanze che possiamo riassumere nello schema A-B-A ’—C-B ’-A “.
Mentre conosciamo con precisione la data e l ’origine della Sonata in la minore, dobbiamo accontentarci di ipotesi per quanto riguarda l’Adagio in mi bemolle maggiore (noto con il nome di Notturno) e lo stesso Trio op. 99. E’ probabile che un pezzo isolato come l’Adagio sia stato scritto come tempo di un trio, e poi scartato: la tonalità di mi bemolle maggiore rende verosimile l ’ipotesi che questa pagina dovesse appartenere al Trio in si bemolle maggiore op. 99, dove il tempo lento appunto in mi bemolle maggiore. L ’evidente superiorità del ’Andante un poco mosso che attualmente fa parte del trio op. 99 potrebbe facilmente spiegare perché` Schubert abbia scartato l’altro Adagio, che fu pubblicato postumo a Vienna, da Diabelli nel 1845, con un titolo e un numero d ’opus aggiunti arbitrariamente, Notturno op. 148.
Sulla base della ipotesi formulata dovremmo collocare il nostro Adagio isolato poco prima del Trio op. 99 (come ha fatto il Deutsch attribuendo loro rispettivamente i numeri D. 897 e D. 898), nel 1826 0 agli inizi del 1827 (anche per il Trio la data esatta é sconosciuta). Le poche altre cose che sappiamo di questa pagina riguardano il materiale musicale su cui si basa, ma non ci sembrano fornire rilevanti indicazioni cronologiche. La melodia iniziale, proposta da violino e violoncello con l’estrema dolcezza degli andamenti di terze parallele, rivela una affinità con quella che troviamo nella prima parte della Fantasia in do maggiore op. 159 per violino e pianoforte, del novembre 1827: simile é pero solo un breve inciso melodico, che nella Fantasia dà semplicemente l’avvio a un libero fantasticare del violino, mentre nell’Adagio é proprio il nucleo centrale intorno a cui si costruisce la prima idea.
Quella successiva sarebbe ispirata, secondo una  tradizione non documentabile con sicurezza, a una canzone popolare austriaca, da Schubert ascoltata durante il suo soggiorno a Grnunden e Gastein (4 giugno-15 luglio 1825). In effetti ha un carattere ritmica particolare, con quella sorta di quadratura conferitale dalla regolare presenza di una pausa sul secondo tempo di ogni battuta: pare che questo andamento servisse agli artigiani a battere in tempo il loro colpo di martello, in corrispondenza appunto della pausa. La forma complessiva di questo Adagio é assai semplice, con esposizione e ripresa dei due episodi di cui si é fatto cenno, seguiti da una coda basata sul primo.
PAOLO PETAZZI