Haydn: Le stagioni

 

Le stagioni (Die Jahreszeiten) è un oratorio di Joseph Haydn, su libretto di Gottfried van Swieten derivato dal poema Stagioni di Thompson.

L’opera si compone di 4 parti, ciascuna dedicata ad una stagione, e comprende 44 numeri tra recitativi secchi e accompagnati, arie, duetti, terzetti e cori. Fu eseguito per la prima volta a Vienna il 24 aprile 1801.

Organico orchestrale [modifica]

La partitura di Haydn prevede l’utilizzo di:

• 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto

• 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, trombone basso

• timpani

• archi.

Massimo Rolando Zegna intervista Diego Fasolis per “Amadeus” 12.2002

1) “Le Stagioni” hanno sempre goduto di una minore fortuna concertistica e
discografica rispetto alla “Creazione”: a Suo parere perché è avvenuto
questo? Ci sono delle effettive ragioni musicali?

Potrei dirle che Haydn stesso ha condannato il suo secondo oratorio monumentale ad una posizione subalterna quando al termine di un’esecuzione pare abbia affermato “gli angeli della Creazione sono ora semplici pastori”. La composizione delle Stagioni fu molto impegnativa per l’anziano Haydn e lui stesso si definì spossato da questo impegno e più precisamente affermò “Le quattro stagioni non mi hanno portato fortuna. Non avrei dovuto scriverle”. Questi elementi non traspaiono all’ascolto ma forse aleggiano. Per quanto riguarda gli aspetti discografici, a parte l’orrenda crisi del momento, vi è una radicata antipatia del “marketing” per Haydn.

Quindi Creazione di Haydn forse si ma Stagioni solo di Vivaldi.

Qualche tempo fa in una strana quanto istruttiva trattativa con la Universal-Archiv avevo proposto dei progetti vocali e strumentali sul repertorio di Haydn per il quale ho trovato una immediata reazione negativa. Haydn non si vende!

2) Haydn compose “Le Stagioni” con la precisa intenzione di elaborare
un’opera cosmopolita, che rivolgesse al mondo occidentale un messaggio
universale. Quale messaggio Lei legge in questa partitura, quale visione del
mondo, quale insegnamento morale?

Dopo molti decenni al servizio degli Esterhazy il compositore si trova coinvolto con i rivoluzionari cambiamenti storici e libero professionista conosce le realtà musicali europee, a Londra respira l’interesse per i grandi oratori Händeliani.

L’amico van Swieten attivo nel recupero di questi capolavori aiuta il fratello massone Haydn anche per la traduzione dall’inglese della Creazione. Il grandissimo successo internazionale di questo oratorio spinge Haydn, e van Swieten, a superarsi con una nuova composizione il cui messaggio non dovrebbe essere inferiore all’altro.

Certamente gli ideali massonici di fratellanza, amore per l’umanità e per le leggi della natura, miglioramento di sé con lo studio e la comprensione di simboli universali e il superamento dei dogmi, sono grandemente presenti in questa composizione. I tre solisti, le quattro parti, i 39 numeri e le proporzioni auree interne hanno un significato allegorico-esoterico certo.

Come ogni capolavoro “Le Stagioni” possono essere lette a vari livelli.

La morale descritta dal basso nell’Inverno non è certamente l’unico e decisivo elemento di comprensione dell’opera.

3) Negli ultimi anni della sua vita Haydn intensificò la sua produzione di
opere d’ispirazione sacra. Quale visione del sacro ci ha dato Haydn con la
sua musica e, in particolare, con “Le Stagioni”? È anche possibile parlare
di un certo panteismo musicale?

Penso e spero che la vecchiaia non riservi solo spiacevoli decadimenti fisici e che offra una visione del mondo armonica e positiva.

Il vecchio Haydn chiamato, da tutti con rispetto “papà”, aveva questa percezione con serena e infantile consapevolezza.

Constato che anche persone di formazione laica e atea con gli anni si avvicinano al Sacro.Come potrebbe un uomo nato da austriaca umile e virtuosa famiglia cristiana, con una vita di continuo grande, artigianale ed artistico lavoro sfociata nei più grandi riconoscimenti, non dedicare la sua più alta arte al Sacro.

4) Dal punto di vista strettamente musicale, a Suo parere questa partitura
come s’inserisce nella tradizione degli oratori inglesi (Händel) e
austriaci? E cosa apporta di nuovo? Qual’è la sua eredità dal punto di vista
compositivo?

Gli oratori di cui mi chiede si pongono in qualche misura come contraltare dell’imperante onnipresente ed entusiasmante mondo operistico.

Le passioni, anche truci o lascive, dell’opera sono assenti in queste composizioni di meditazione filosofica e morale che riempiono l’ascoltatore di aneliti sacri.

Haydn propone modelli conosciutissimi, dalla situazione bucolica o pastoriccia alla tempesta, dalla caccia all’ubriacatura (Vivaldi docet) dalla barzelletta al sonno.

Lo fa con una consapevolezza della forma musicale impareggiabile.

Fissa anche alcuni modelli melodici ed armonici o di atmosfera fonti di nuove ed importanti ispirazioni per i suoi successori del romanticismo, Beethoven in testa.

“Le Stagioni” non sono quanto di più innovativo Haydn abbia proposto.

Nel repertorio sinfonico o cameristico troviamo moltissimo.

5) Quali sono gli aspetti stilistici di questa partitura che più La
colpiscono?

Apprezzo moltissimo le atmosfere che introducono le singole stagioni e che in qualche misura sono innovative. Vi è una perizia di orchestrazione e di distribuzione dei pesi e delle energie veramente impressionante. Come sempre presso Haydn bisogna accettare che gli slanci emotivi siano controllati. Ma che affascinante controllo!

7) Una delle grandi novità della “Creazione” e delle “Stagioni” è l’uso
massiccio del coro. Quali sono le caratteristiche della scrittura vocale di
Haydn, solistica e corale? Pone particolari problemi al cantante e al
concertatore?

Se penso all’Israele in Egitto di Händel che è composto per quattro quinti da brani a doppio coro direi che l’uso del coro presso Haydn è proporzionato.

La conoscenza della voce è ottima e nessun cantante in alcun registro trova grandi difficoltà. Il ruolo del coro non è semplice né tecnicamente né emozionalmente. Deve infatti spesso interloquire con i solisti esprimendo tecniche e sentimenti diversi. Per il concertatore queste opere, che non presentano particolari difficoltà tecniche dal punto di vista della tecnica di direzione, sono problematiche per lo sviluppo di un arco unitario e per la tenuta della tensione e dell’interesse da parte del pubblico in un concerto che supera le due ore.

8) Cosa ne pensa della predilezione nei confronti del descrittivismo qui
espressa da Haydn? Quale è stato il suo approccio da interprete nei
confronti di questa caratteristica da alcuni bistrattata?

L’approccio alle opere musicali non è mai “giudicante”.

Il mio compito, anche istituzionale come direttore musicale di una struttura radiofonica nazionale votata alla più ampia e varia attività di registrazione, è quello di cercare di capire ed interpretare le opere che mi vengono proposte dalla direzione artistica, che è nelle solide mani dei musicologi Carlo Piccardi (direttore della rete culturale) e Giuseppe Clericetti (produttore).

Il nostro Ente, pur avendo indirizzato l’attività del Coro principalmente sulla musica antica, deve raggiungere un pubblico eterogeneo. Mi trovo quindi piacevolmente confrontato con riscoperte del Rinascimento o del Barocco come con le opere più note del repertorio o prime esecuzioni di musica contemporanea.

Per risponderle, il descrittivismo di Haydn non è meno interessante dei madrigalismi barocchi e dell’espressionismo tardo romantico. Il rispetto per la qualità dell’artigianato e dell’ispirazione sono, a mio avviso, più importanti del gusto personale al quale hanno certamente diritto gli ascoltatori più degli esecutori.

9) Può ripercorrere il concreto lavoro interpretativo ed esecutivo che ha
compiuto su questa partitura. Dalla scelta dell’edizione a stampa, a quella
dell’organico, al lavoro con cantanti e orchestra. Cosa ha chiesto in
particolare a cantanti e orchestrali? Sarebbe interessante se Lei
approfondisse questo aspetto, magari anche con dei precisi esempi.

Vi sono oggettive difficoltà nel decidere sui materiali.

Vi è un’ edizione a stampa immediatamente successiva all’esecuzione del 1801 che contiene errori e manchevolezze. Una certa stanchezza di Haydn deve aver portato ad un controllo poco rigoroso rispetto alla partitura originale oggi introvabile.

Esistono poi delle parti orchestrali separate con indicazioni pratiche di utilizzo.

Vi sono incongruenze sull’uso del controfagotto e di percussioni aggiuntive.

Ci sono difficoltà anche per decidere un organico. Certa è un’esecuzione “a corte” con organico limitato (dove il ruolo di Hanne fu cantato dall’imperatrice Maria Teresa “ricca di gusto e di espressione ma dalla voce flebile”)ma si sa che ci furono fino a duecento musicisti per le prime repliche.

All’epoca della registrazione il nostro complesso orchestrale con strumenti originali “I Barocchisti” non disponeva ancora di un organico abbastanza vasto.

Con grande spirito di collaborazione l'”Orchestra della Svizzera italiana” ha lavorato su dinamiche , fraseggi e articolazioni per realizzare il concerto da cui è scaturita la presente registrazione.

Si trattava di una produzione in ripresa video TSI e per tempi televisivi ho dovuto tagliare qualche numero con i relativi recitativi.

Per questo motivo sul CD troverete alcuni numeri cantati da un secondo soprano.

Per una serie incredibile di disguidi non è più stato possibile riunire i tre solisti. Troverete così nell'”Inverno” dei recitativi provenienti da un’ inedita registrazione di archivio. Ai primi tre lettori e ascoltatori di Amadeus che identificheranno i tre solisti “misteriosi” la RTSI regalerà tre CD del Coro della Radio Svizzera.

10) A Suo parere quali sono i momenti più belli di questa partitura e quali
quelli che chiedono un maggiore impegno da parte dell’interprete? Perché?

Citandone alcuni darei un giudizio riduttivo per altri.
Lascio quindi a tutti la possibilità di gustare, con pregi e difetti di un’ incisione dal vivo, uno dei capolavori della storia dell’uma

telemann: Tafelmusik

Georg Philipp Telemann (Magdeburgo, 14 marzo 1681 – Amburgo, 25 giugno 1767) è stato un compositore e organista tedesco. Autodidatta, espresse già nell’infanzia una spiccata facilità compositiva e una precoce padronanza di strumenti musicali quali violino, flauto e clavicembalo. Contemporaneo di Bach e Handel, cui lo legava una profonda amicizia, all’epoca della sua vita era molto famoso e considerato uno dei maggiori musicisti tedeschi.
Telemann ebbe due fasi nella sua vita artistica: per tutta la durata della prima, non fu più che un discreto emulo della musica di tradizione tedesca, componendo pezzi in uno stile più severo che fiorito e dal carattere più contrappuntistico che melodico. Nella seconda, invece, lasciò più libero corso alla sua vena melodica che sosteneva la sua più che prodigiosa attività creativa (si contano più di 5000 opere da lui composte, 6000 secondo altri). Dice in proposito il grande critico musicale Eduardo Rescigno: “…Uomo di vasta cultura e di vari interessi, [Telemann] si accosta alla musica per vocazione, da dilettante e per tutta la vita conserva nei confronti dell’arte musicale un rapporto di felice partecipazione umana, ben lontano dal rigido professionalismo di molti suoi colleghi…Scrive molto, tutto quello che i suoi vari uffici gli impongono di scrivere; ma da buon dilettante – cioè da uomo di cultura che si è avvicinato alla musica soprattutto per passione – scrive prevalentemente per i dilettanti, per farsi eseguire da altri appassionati di cui conosce perfettamente i limiti e le preferenze, instaurando un vivo rapporto tra il compositore ed il suo pubblico. Il dilettantismo diventa quindi ragione prima di scelte stilistiche: una grande semplificazione, un’accurata ma sempre geniale economia sonora, una grande precisione di schemi. Infine, l’innata curiosità dell’amatore e dell’uomo colto, ansioso di tutto sperimentare senza tema di venir meno alla rigorosa dignitosità del professionista, lo porta ad accostarsi agli stili più diversi, a tentare tutte le forme, sempre adattandole a quella geniale linearità di dettato che è la sigla sempre ricorrente del musicista magdeburghese…”.

Molti musicisti lo lodarono e gli riconobbero una grande conoscenza tecnica della musica, tra questi Händel il quale ricorda come Telemann fosse capace di scrivere un mottetto a otto voci più velocemente di una comune lettera.

In vita fu considerato uno dei più grandi musicisti tedeschi. Fu amico di Johann Sebastian Bach. Dopo essersi laureato in legge, Telemann conobbe Händel e, abbandonata la toga, si dedicò completamente all’arte e alla professione musicale. La sua Musica da Tavola può essere annoverata tra i capolavori del barocco musicale.

Il termine Tafelmusik si riferisce al genere della musica da tavola.

Liszt: Rapsodie ungheresi

Franz Liszt: Rapsodie ungheresi n.2, n.6, n.12, n.15 di Franz Liszt interpretate da Gyorgy Cziffra.
Liszt scrisse questa raccolta di opere tra gli anni 1846-1853 e poi più tardi negli anni 1882-1885, in onore dei moti rivoluzionari del democratico Lajos Kossuth per l’indipendenza dell’Ungheria dall’Austria. Le prime 15 vennero eseguite per la prima volta nel 1853, mentre le altre 4 tra il 1882 e il 1885. In questa composizione Liszt mostra tutta la sua capacità virtuosistica: in esse possiamo notare i contrasti tra modi e sonorità, i periodi di calma e di turbolenza e le forme libere che danno una sorprendente libertà di esposizione dei temi.

Lo stesso compositore adattò l’opera per tre diversi organici: orchestra, due pianoforti e trio.
Liszt si ispirò ad alcune canzoni popolari che aveva ascoltato nella sua nativa Ungheria. La struttura di questi brani deriva infatti dal verbunkos, una danza ungherese in più parti e con diversi tempi.

Verdi: Messa da Requiem

Verdi: Messa da Requiem
Solisti:
Beniamino Gigli

Maria Caniglia
Ebe Stignani
Ezio Pinza


Direttore: Tullio Serafin
Maestro del coro Giuseppe Conca

Scarica qui la messa da Requiem di Verdi


Nonostante Verdi si sia sempre rifiutato di comporre musica celebrativa, durante il corso della sua lunghissima carriera, in due occasioni fa eccezione e progetta la composizione di una messa per onorare degnamente la scomparsa di due grandi personalità della cultura italiana del suo tempo: Alessandro Manzoni (morto il 22 maggio 1873) e Gioacchino Rossini (morto nel dicembre 1868).

La morte di Rossini giunge proprio in un momento particolare, quando cioè sembrava che stesse venendo meno il secolare primato della tradizione operistica. L’interesse del pubblico si rivolgeva sempre più spesso alla musica sia operistica che sinfonica di autori stranieri. Inoltre era opinione comune che bisognasse ricercare il nuovo attraverso l’abbandono della tradizione. Verdi reagisce a queste tendenze e propone, attraverso la sua musica, di onorare colui che era riconosciuto come il più grande musicista italiano del secolo; dà così vita, insieme ad altri 11 musicisti, al Requiem per Rossini.

Al Maestro di Busseto viene assegnato il brano conclusivo Libera me, Domine. Il Requiem non viene però eseguito alla data stabilita, prevista per il 13 novembre 1869. Per due anni si continua a discutere della possibilità di eseguire la Messa, ma Verdi considera il progetto fallito, poiché non si è eseguita nel primo anniversario della morte di Rossini.

Dopo pochi anni un’altra morte eccellente colpisce il Maestro di Busseto, quella dell’Autore dei Promessi Sposi. La composizione del Requiem per Alessandro Manzoni inizia nel 1873, anno in cui Verdi ritorna in possesso della sua partitura originale per il Libera me, Domine, composto ben 5 anni prima per la Messa di Rossini e mai eseguito. Il Maestro propone il Requiem per Manzoni a Ricordi, il quale a sua volta lo propone al Comune di Milano, con promessa di eseguirlo nel primo anniversario della morte del grande letterato. Il Sindaco e la Giunta accettano di buon grado e ringraziano calorosamente Verdi.

La Messa da Requiem viene finalmente eseguita nella chiesa di San Marco il 22 maggio 1874, con il soprano Teresa Stolz, il mezzosoprano Maria Waldmann, il tenore Giuseppe Coppini e il basso Ormondo Maini diretti dallo stesso Verdi.

1.Dies irae

Scrive il filosofo Ernst Bloch nel suo Principio speranza: “Da cento anni, anzi quasi da duecento, il testo liturgico di morte e dannazione non viene più creduto dalla maggioranza degli uomini, ciò nonostante esso vive ancora nella musica. Ciò nonostante, Mozart, Cherubini, Berlioz, Verdi scrissero le loro Messe funebri in grande stile ­ e acutamente autentiche. Di parvenze decorative non v’è traccia in questi grandi capolavori, neanche in Verdi, dove più che negli altri il senso del teatro sarebbe accettabile. […] La musica del grande Requiem non dà un godimento artistico, ma provoca turbamento e commozione; e il testo liturgico, nato da paure e struggimenti millenari di epoche arcaiche, presta alla musica i suoi grandi archetipi”. Fu proprio il turbamento dinanzi alla morte e al suo mistero, l'”archetipo nato dagli struggimenti millenari”, a colpire Verdi sin dalla prima concezione della Messa. Al musicista interessò subito la morte, quello che di irrevocabile essa possiede. “Messa da morto” chiamava Verdi il proprio Requiem. Con simili intenti non c’è da stupirsi se la pagina più debole sia il Sanctus, mentre la più originale e potente sia il Dies irae, un poderoso organismo musicale che, non a caso, mentre nella liturgia accupa un posto piuttosto periferico, nel Requiem assume posizione centrale e, addirittura, ciclica. Non previsto dal testo, infatti, Verdi ripropone il coro del Dies irae più volte all’interno della sezione, e una volta addirittura nel Libera me. Quasi Leitmotiv della morte, del terrore che essa suscita, il tema (A ­ la famosa sequenza gregoriana) è introdotto da quattro terrificanti accordi a piena orchestra in sol minore, immediatamente ripetuti (B). Quasi la morte non avesse volto e non avesse parola, questi accordi sono un brutale avviso fonico. Anche le trombe del giudizio, che per molti commentatori sono di effetto teatrale, trovano il loro senso nell’ispessimento fonico e nella loro disposizione spaziale (C). Si noti come il crescendo e l’animando sfoci in un accordo violento e pauroso. Da questi agglomerati sonori quasi espressionistici, sorgono le voci dei solisti, eco della collettività. È il caso dello splendido Mors stupebit, cantato dal basso e accompagnato da un disegno degli archi (D) che via via si frantuma nell’attonita sospensione della parola “Mors” (E); oppure il caso della parola “Nil” nel Liber scriptus proferetur, parola ripetuta quattro volte e interrotta da lunghi, abissali, silenzi (F).

Suddivisione
Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro)

• Dies Irae
Dies irae (coro)
Tuba Mirum (basso e coro)
Mors stupebit (basso e coro)
Liber Scriptus, (mezzosoprano, coro)
Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore)
Rex tremendae (solisti, coro)
Recordare (soprano, mezzosoprano)
Ingemisco (tenore)
Confutatis (basso, coro)
Lacrymosa (solisti, coro)

• Offertorium (solisti)

• Sanctus (a doppio coro)

• Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro)

• Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso)

• Libera Me (soprano, coro)


Beethoven: Missa solemnis

Scarica qui la Missa Solemnis di Beethoven

Ci possiamo figurare a messa Mozart, vestito da chierichetto,
mentre beffeggia il prete per le castronate dette nella predica.
Haydn lo immaginiamo nelle panche davanti all’altare, seduto vicino
alle autorità, con lo sguardo un po’ scettico ma rispettoso.
Persino Schubert lo vediamo in chiesa, anche se forse non di
domenica – di sicuro non in Duomo, piuttosto in una parrocchia di
periferia. Bruckner invece all’organo, in tutte le funzioni.
Beethoven, no.
È arduo immaginarlo alle prese con i sacramenti
della Confessione e della Comunione.
Beethoven incarna il tipo del mangiapreti, pronto a sommergere di improperi e di ingiurie
irripetibili un povero Don Abbondio che avesse a capitargli per le
mani. Dio non c’entra in questo discorso, perché Beethoven non era
un miscredente. Anzi, il problema del sacro fu per lui un tema
dominante, che ha attraversato in varie forme l’intera sua opera.
Se non riusciamo a figurare Beethoven come un cristiano osservante,
ligio alla disciplina cattolica in cui fu cresciuto, ciò dipende
dal fatto che con lui si manifesta nella storia della musica quella
tendenza alla secolarizzazione della religione che in Francia aveva
preso le mosse dalla Rivoluzione, in Inghilterra dal pragmatismo
della city e in Germania dalla filosofia dell’idealismo. L’arte,
secondo l’opinione di questi pensatori, aveva sostituito il culto
nell’espressione dello spirito assoluto, che ogni epoca ha
incarnato in forme differenti. Detto in modo terra terra, i riti
della chiesa appartenevano, secondo loro, a una fase immatura della
civiltà, a un’epoca in cui il popolo aveva bisogno di simboli
semplici e ingenui per comprendere la questione religiosa e per
formarsi un concetto di Dio. Il mondo contemporaneo, di cui la
filosofia incarnava la modernità, non aveva più bisogno di quel
vetusto apparato di liturgie e di false credenze per entrare in
dialogo con il divino. Brutto affare, per la Chiesa. Malgrado fosse
passata tutto sommato indenne in mezzo alla tempesta napoleonica,
Roma vedeva minacciata la sua autorità spirituale in modo più
subdolo e pericoloso dal diffondersi di una cultura nuova, con la
quale non riusciva a entrare in sintonia. Nemmeno Lutero da parte
sua, dopo le lezioni di estetica di Hegel all’Università di
Berlino, se la passava meglio. La musica, elemento cruciale della
liturgia sia cattolica, sia protestante, fu la prima a fare le
spese della crisi d’identità in cui versava la chiesa all’inizio
dell’Ottocento. Un tempo primaria fonte di reddito per la maggior
parte dei musicisti, la musica sacra in Austria aveva cominciato a
decadere verso la fine del Settecento, quando molte cantorie furono
chiuse per ordine dell’Imperatore. Inaridita dalla mancanza di
autentiche voci creative, la produzione di messe e di brani
liturgici si allontanava sempre di più dalla parte più viva della
musica del suo tempo, salvo rare e problematiche eccezioni. Il più
clamoroso di questi unicum, manco a dirlo, fu la Missa solemnis di
Beethoven. Eccessivo in tutto, Beethoven non frequentava preti ma
arcivescovi come l’arciduca Rodolfo. Il fratello dell’Imperatore fu
a Vienna il suo più autorevole protettore e anche un munifico
committente. Costui ardì di chiedere al musicista una Messa, da
eseguirsi in occasione della sua consacrazione ad arcivescovo a
Colonia nel marzo del 1820. Beethoven intascò i quattrini e
consegnò la partitura a suo comodo, cinque anni dopo, nel 1824. In
compenso, Rodolfo ricevette in omaggio un’opera di profondità
spirituale senza precedenti e forse senza nemmeno discendenti,
almeno all’interno del suo genere. Il confronto con Dio, nella
Missa solemnis, prescinde in sostanza dalla mediazione della
Chiesa. In questa musica visionaria e grandiosamente immobile, come
una montagna spirituale, l’anima dell’uomo s’interroga senza posa
sulla sua natura e su ciò che significa la presenza di Dio nella
nostra vita. (o.b.)

Mahler: Sinfonia Nr.1

Carlo Maria Giulini
Chicago Symphony
Lato uno
I Langsam schleppend
II Kraftig bewegt
Lato due
III Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen
IV Sturmisch bewegt

La Sinfonia n. 1 in Re maggiore di Gustav Mahler fu composta in un lungo arco di tempo tra il 1888 ed il 1894, quando il lavoro di direttore d’orchestra lasciava poco tempo a Mahler per la composizione, ed ebbe diverse revisioni perché il compositore rimase a lungo indeciso se dare al lavoro la forma di poema sinfonico o di sinfonia.

La prima esecuzione della prima versione avvenne a Budapest nel 1889, quando Mahler era direttore del Teatro dell’Opera, e fu presentata come poema sinfonico in cinque movimenti intitolato Symphonische Dichtung in zwei Teilen (Poema Sinfonico in due parti). L’accoglienza del pubblico ungherese non fu molto calorosa ed il compositore decise di apportare delle modifiche che chiarissero meglio il significato del lavoro.

Nelle successive esecuzioni ad Amburgo (1893) e Weimar (1894), la composizione fu intitolata Titan. Eine Tondichtung in Symphonie-form (Il Titano. Poema sinfonico in forma di sinfonia).

Per la versione di Amburgo Mahler decise di aggiungere alla composizione il titolo di Titano (ispirato a Der Titan romanzo di Jean Paul), un programma dettagliato per descrivere in modo più chiaro i movimenti ed i titoli per le due parti:

 Aus den Tagen der Jugend – Blumen-, Frucht- und Dornstücke (Dai giorni della giovinezza – Fiori, frutti e spine)

 I Frühling und kein Ende (Primavera senza fine)

 II Blumine

 III Mit vollen Segeln (A vele spiegate)

 Commedia Humana

 IV Gestrandet! Ein Todtenmarsch in “Callots Manier” (Arenato! Una marcia funebre alla maniera di Callot)

 V Dall’Inferno al Paradiso

Dopo altre revisioni, Mahler decise di eliminare il titolo dell’opera, i titoli che descrivevano i movimenti, ed il secondo movimento originale, l’Andante, intitolato Blumine. La prima esecuzione di questa ultima revisione della composizione – una Sinfonia in Re maggiore, senza numero – avvenne a Berlino nel 1896, per una durata complessiva di circa 55 minuti.

Il titolo definitivo di Sinfonia n. 1 apparve in occasione della prima edizione a stampa del 1899.

Donizetti: Don Pasquale

Donizetti:
Don Pasquale

Scarica qui Don Pasquale di Donizetti


Don Pasquale, dramma buffo in tre atti, libretto di Giovanni Ruffini.

Registrazione effettuata negli studi EMI di Abbey Road (Londra) dal 1 al 4 e dal 7 al 9 agosto 1978
Ambrosian Opera Chorus
Maestro del coro John McCarthy, buffo
London Simphony Orchestra diretta da Sarah Caldwell

Don Pasquale: Donald Gramm
Vecchio celibatario tagliato all’antica

Dottor Malatesta Alan Titus, baritono
Uomo di ripiego, medico e amico di Don Pasquale e amicissimo di

Ernesto Alfredo Kraus, tenore
Nipote di Don Pasquale, amante corrisposto di Norina

Norina Beverly Sills, soprano
Giovane vedova

Un notaro Henry Newman, baritono

Don Pasquale è un dramma lirico in tre Atti, musicato da Gaetano Donizetti tra il novembre e il dicembre del 1842, su libretto di M.A. [ Giovanni Ruffini

tratto da Ser Marcantonio (Parigi, 1808) di Angelo Anelli. Don Pasquale venne rappresentato per la prima volta a Parigi, al Théâtre des Italiens, il 3 gennaio 1843, sotto la direzione di Théophile Alexandre Tilmant.

LA PARTITURA MANOSCRITTA

La partitura manoscritta autografa è nell’Archivio Ricordi di Milano.

IL LIBRETTO

Solisti della prima rappresentazione parigina, al Théâtre des Italiens, il 3 gennaio 1843:
Norina – soprano – giovane vedova, natura subita, impaziente di contraddizione, ma schietta e affettuosa (Giulia Grisi)
Ernesto – tenore – nipote di Don Pasquale, giovane entusiasta, amante corrisposto di Norina (Giovanni Matteo de Candia)
Don Pasquale – buffo – vecchio celibatario, tagliato all’antica, economo, credulo, ostinato, buon uomo in fondo (Luigi Lablache)
Dottor Malatesta – baritono – uomo di ripiego, faceto, intraprendente, medico e amico di Don Pasquale e amicissimo di Ernesto (Antonio Tamburini)
un notaro – tenore – (Federico Lablache)

Coro di servi

Maggiordomi, modista e parrucchiere che non parlano

LA TRAMA

L’azione si svolge a Roma

Atto I

Sala in casa di Don Pasquale, con porta in fondo d’entrata comune, e due porte laterali che guidano agli appartamenti interni.

Don Pasquale, vecchio ricco e scapolo, è arrabbiato col nipote Ernesto che vuole sposare Norina, vedova bella, ma povera. Decide allora di prendere moglie per punire il giovane e diseredarlo. Il dottore Malatesta comunica a Don Pasquale di conoscere la ragazza che fa per lui: sua sorella Sofronia (“Bella siccome un angelo”), dal carattere docile, appena uscita dal convento. Ernesto è disperato, non può coronare il suo sogno d’amore (“Sogno soave e casto”) e scrive una lettera d’addio a Norina. Nella sua camera la bella Norina sta leggendo un libro d’amore (“So anch’io la virtù magica”) e, nel ricevere la posta di Ernesto, cade nel più profondo sconforto. Malatesta la rassicura e le spiega di aver organizzato per il vecchio Don Pasquale un matrimonio fasullo. Finta è la sposa perché è la stessa Norina nelle vesti di Sofronia, e finto è pure il notaio.

Atto II

Sala in casa di Don Pasquale

Ernesto compiange la sua sorte (“Cercherò lontana terra”) mentre suo zio è tutto in ghingheri per ricevere la sposa. Arrivano Malatesta e Sofronia (Norina travestita). Don Pasquale rimane colpito e affascinato dalla bellezza e dal comportamento umile della ragazza (“Via da brava”). Si celebra il matrimonio ed Ernesto, che fa da testimone, riconosce Norina, ma viene subito informato da Malatesta della burla, e sta allo scherzo di buon grado. Firmato il contratto nuziale Sofronia si rivela una padrona di casa autoritaria e prepotente (“Voglio, per vostra regola”): raddoppia la paga alla servitù , progetta spese folli e minaccia Don Pasquale.

Atto III

Sala in casa di Don Pasquale, come nell’Atto I e II. Sparsi sui tavoli, sulle sedie, per terra, articoli di abbigliamento femminile, abiti, cappelli, pellicce, sciarpe, merletti, cartoni …

Le pretese di Sofronia aumentano (“I diamanti, presto, presto”) e Don Pasquale non riesce ad impedirle di andare a teatro, sebbene sia la prima notte di nozze (“Dove corre in tanta fretta”). La giovane moglie, uscendo, fa cadere volutamente un foglietto per far pensare a Don Pasquale che ella abbia un amante. Adirato il povero marito chiama il dottor Malatesta e insieme decidono di appostarsi in giardino per sorprendere i due innamorati (“Cheti cheti immantinente”). Ernesto, come suggerito dalla sottile regia di Malatesta, finge di essere l’amante di Sofronia e canta la serenata “Com’è gentil la notte a mezzo april”. I due giovani si abbracciano e si dichiarano il reciproco amore (“Tornami a dir che m’ami”). Don Pasquale e Malatesta escono dal nascondiglio, Ernesto fugge e Sofronia si difende dalle accuse, mostrandosi indignata. Il dottore le annuncia che in casa di Don Pasquale si stabiliranno d’ora in poi Ernesto e Dorina come marito e moglie. Sofronia finge ancora di essere adirata e minaccia di andarsene. Don Pasquale, ben felice di liberarsi da una consorte così bisbetica, dà il consenso alle nozze del nipote. Arriva Ernesto e Malatesta svela l’inganno a Don Pasquale, che appresa la lezione, benedice i due giovani (“La moral di tutto questo”).

SCENA ULTIMA

Norina
La moral di tutto questo
è assai facile trovar.
Ve la dico presto presto
se vi piace d’ascoltar.
Ben è scemo di cervello
chi s’ammoglia in vecchia età ; va a cercar col campanello
noie e doglie in quantità .

Don Pasquale
La morale è molto bella
applicarla a me si sta.
Sei pur fina, o bricconcella,
m’ha servito come va.

Malatesta ed Ernesto
La morale è molto bella,
Don Pasqual l’applicherà .
Quella cara bricconcella
lunga più di noi la sa.

FINE