Brahms Requiem Tedesco

Scarica qui il requiem tedesco di Brahms

Ein deutsches Requiem (noto in Italia come Requiem tedesco) è un’opera sacra di Johannes Brahms. Completato nel 1868, è un lavoro sinfonico corale polifonico. Rese noto il compositore tedesco, allora trentacinquenne.

Non si tratta di un requiem in senso propriamente liturgico, e non ha una diretta relazione con le messe funebri in latino come quelle di Mozart o Verdi. Si tratta infatti di un’opera concepita essenzialmente per le rappresentazioni concertistiche. Questa funzione si rispecchia indirettamente nel testo, che è di forma abbastanza libera. Brahms infatti non usò il testo latino prescritto dalla chiesa per composizioni da requiem: egli stesso compose un libretto scegliendo minuziosamente tra i testi della Bibbia in tedesco, nella versione di Martin Lutero. Il concetto di fondo portato avanti da Brahms era comunque di natura più filosofica che politica: le persone cui portare aiuto e consolazione non erano i morti, ma i vivi. [1] Il tono di pace e consolazione, peraltro, è chiaramente percepibile sin dalle prime battute dell’opera e che rimane tale anche nell’ultimo brano, durante il quale riecheggia il primo numero e porta a compimento, quasi ciclicamente, il lavoro. La morte dell’amico Robert Schumann nel luglio del 1856 e della madre di Brahms nel febbraio del 1865 dovrebbero aver dato la spinta decisiva per la composizione di questa opera, malgrado Brahms pianificasse da tempo un lavoro del genere. V’è da dire che il brano per soprano solo e coro „Ihr habt nun Traurigkeit“ fu aggiunto dal compositore in un secondo momento, proprio dopo la morte della madre. [2] Johannes Herbeck diresse i primi tre movimenti a Vienna il 1° dicembre 1867. La rappresentazione fu aspramente criticata. Tuttavia, il venerdì santo del 1868, una versione più completa fu rappresentata nella cattedrale di Brema: il successo significò una svolta decisiva nella carriera di Brahms.[3]

Johannes Brahms (Amburgo 1833 – Vienna 1897) aveva trentacinque anni quando, il 10 aprile del 1868, Ein deutsches Requiem (Un requiem tedesco) per soli coro e orchestra riscosse un grande successo alla prima esecuzione, avvenuta nel duomo di Brema.

Il musicista era già abbastanza noto, aveva già ampiamente confermato quanto fosse illuminato il giudizio di Robert Schumann che, quando aveva solo vent’anni, gli aveva procurato con un celebre articolo il più formidabile e autorevole lancio pubblicitario che mai giovane musicista abbia avuto.

Eppure solo a partire da questo Requiem tedesco, a una età relativamente matura, la sua fama viene irrevocabilmente consacrata. Prima di allora per lo più Brahms aveva rinviato l’impegno di un’opera sinfonica o sinfonico-corale di grandi dimensioni, aveva aggirato il confronto con questo aspetto cruciale della grande tradizione musicale che l’aveva preceduto. Non chiarì mai l’occasione che diede vita al lavoro: la morte di Schumann, o forse la morte della madre, avvenuta nel 1865; certo è che giunse all’appuntamento con piena consapevolezza sia dell’eredità musicale e culturale che lo precedeva, sia della propria autonoma capacità di reinterpretarla.

Era un’epoca in cui, come scrive il musicologo C. Dahlhaus, “non si poteva più capire se scrivere una Messa da concerto volesse dire trasformare la sala da concerto in una chiesa o la Messa in un pezzo da concerto”; Brahms coglie lo spirito del tempo e, nell’aggiungere la propria alla serie gloriosa della Messe da requiem del passato, evita di rifarsi alla liturgia, di tradizione cattolica, della Missa pro defunctis: forte della conoscenza diretta dei testi biblici, tipica della cultura tedesca protestante, è in grado di allestire una scelta del tutto personale, non confessionale, di brani dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Ciò gli permette di dar voce, sia pure attraverso la Bibbia, a una sua peculiare riflessione sulla morte, sospesa nel confronto fra la fragilità della vita umana e l’idea di pace, di riposo eterno: un confronto volutamente irrisolto nel quale sostanzialmente non appare la figura mediatrice di un Redentore divino.

Dal punto di vista musicale poi, è chiara qui la consapevolezza da parte di Brahms di essere il depositario di una (o piuttosto della) tradizione centrale della musica colta europea: quella che dall’età barocca di Bach e Haendel egli sentiva esser giunta, attraverso Beethoven e i romantici, fino a lui, senza sostanziale soluzione di continuità. Siamo al culmine della civiltà musicale tedesca.

Perché uno scrittore argentino (ma totalmente intriso di cultura letteraria e filosofica europea), maestro del genere “fantastico”, scrive nei tardi anni Quaranta un racconto intitolato Deutsches requiem (cioè Requiem tedesco), riprendendo esplicitamente il titolo del capolavoro brahmsiano?

Nell’ Epilogo della raccolta L’Aleph – uscita a Buenos Aires nel 1949 – Jorges Luis Borges presentando brevemente alcuni dei racconti che la compongono scrive tra l’altro: “Durante l’ultima guerra nessuno ha potuto desiderare più di me che la Germania fosse sconfitta; nessuno ha potuto sentire più di me la tragedia del destino tedesco; Deutsches requiem vuole intendere tale destino […]”.

Vediamo di che si tratta. Tipica del fantastico borgesiano è la contaminazione fra la saggistica e la letteratura di finzione, il ricorso all’apocrifo, alla simulazione dell’erudizione. Qui l’artificio è quello del finto manoscritto.

Si immagina di rendere noto un manoscritto appunto – con tanto di note attribuite ad un presunto “editore tedesco”- in cui narra in prima persona la propria vicenda Otto Dietrich zur Linde, nato a Marienburg nel 1908. E’ la vigilia della sua fucilazione in quanto “torturatore e assassino”. “Fin dal principio, io mi sono dichiarato colpevole”, chiarisce il protagonista, riconoscendo la rettitudine del tribunale, e narra per sommi capi la propria storia. E’ la storia di un uomo che ha vissuto profondamente la cultura del suo paese: la grande musica e la filosofia sono state le sue passioni, Brahms e Schopenhauer i suoi “benefattori”; il superuomo di Nietzche e l’idea del tramonto dell’occidente di Spengler entrano nella sua vita alla fine degli anni Venti.

Non molti anni dopo, a fianco di camerati che pure individualmente gli paiono odiosi, si sente alle soglie di un tempo nuovo, entusiasmante, che esige uomini nuovi; mutilato, e inetto perciò a combattere, diventa nel ’41 direttore di un lager, dove mette alla prova la sua vittoria contro un vizio dell’uomo vecchio, la pietà. Giunta la catastrofe per il suo paese avverte, inatteso, “il misterioso e quasi terribile sapore della felicità”, perché sente a questo punto la fine, la morte di tutto il suo mondo come un fatto necessario, un destino.

Tutta la storia tedesca (anche la migliore, anche Brahms…) porta la Germania al punto in cui l’aprirsi di un mondo nuovo, quale che sia, richiede il suo sacrificio, la sua morte. Questo dunque è il Requiem tedesco.

FRANCO BERGAMASCO

Il filosofo di campagna, Il maestro di cappella

Scarica qui Il maestro di cappella e il Filosofo di campagna

Il filosofo di campagna

C.Goldoni dà piena dignità all’opera buffa, aiutato dalla musica di
Galuppi, esibendo una grande padronanza nel dosare le personalità
dei personaggi in un testo bellissimo e originale.

Il Filosofo di campagna costituisce uno degli esempi più celebri
del teatro buffo di metà Settecento: subito ‘esportato’ in tutta
Europa, conobbe anche una popolare riduzione a intermezzo in due
atti.

La trama

Atto primo. Eugenia non intende sottostare ai desideri paterni: Don
Tritemio vorrebbe infatti che la figlia sposasse il ricco ‘filosofo
di campagna’ Nardo, mentre la ragazza è innamorata del nobile
Rinaldo. La cameriera Lesbina si impegna ad aiutarla, ma Don
Tritemio scaccia in malomodo lo spasimante. Intanto Nardo, ignaro
di tutto ciò, discutendo con la nipote Lena mette in burla ogni
antiquato tentativo di avanzamento sociale attraverso le nozze e
tesse un elogio della serenità campestre. Quando il filosofo si
presenta a casa di Don Tritemio, Lesbina, per nascondere l’incontro
tra i due amanti che ha luogo proprio in quel momento, finge di
essere Eugenia e si propone a Nardo come sposa. Nel finale d’atto
la cameriera riesce a evitare che Don Tritemio sveli a Nardo la
verità e accetta volentieri un anello di fidanzamento da parte del
ricco contadino.

Atto secondo. Lesbina ha consegnato l’anello a Eugenia. Quando
Rinaldo si presenta con un notaio per formalizzare le sue
intenzioni, Don Tritemio fa notare come la figlia sia già
fidanzata, provocando l’ira del giovane, che si sente tradito.
Mentre Eugenia sfoga la sua disperazione, Nardo invia uno splendido
gioiello per la sposa. Rinaldo, intanto, si è recato a protestare
presso il filosofo: questi, vista la fermezza del giovane, gli
concede di tenersi pure la sposa. L’acquisto di una moglie non è
infatti impresa per cui valga la pena di rischiare alcunché. Il
filosofo viene inoltre a sapere della vera identità di Lesbina, ma
non si scompone: la ragazza gli piace, e il suo stato sociale è del
tutto irrilevante. La cameriera ha intanto finto di voler sposare
Don Tritemio: quando il notaio si presenterà per la firma del
contratto, si approfitterà dell’uscita del vecchio Tritemio per
celebrare le doppie nozze di Lesbina con Nardo e di Eugenia con
Rinaldo.

Atto terzo. Tutti i personaggi si trovano in casa di Nardo. Don
Tritemio non ha ancora capito nulla dell’accaduto, mentre Nardo,
contento, tributa lodi entusiastiche alla ragionevolezza, alla
moderazione e alla vita semplice e naturale, lontana da ogni
ambizione. Scoperta la verità, a Don Tritemio non resta che
consolarsi con le proprie nozze: non con Lesbina, ma con Lena,
nipote di Nardo.

Il maestro di cappella
Il maestro di cappella è un intermezzo comico composto da Domenico
Cimarosa, probabilmente tra il 1786 e il 1793 basato su un libretto
di produzione ignota.
L’operina è unica nel suo genere in quanto, diversamente da tutti
gli altri intermezzi settecenteschi, vi è la presenza di un solo
cantante, il maestro di cappella per l’appunto. Proprio per la
particolarità di avere un personaggio soltanto non è stata ancora
scartata l’ipotesi che questo lavoro fosse stato scritto
originalmente come un ampliamento di un’aria per basso o di una
cantata comica.
Questo intermezzo è una parodia del maestro di cappella
settecentesco ed è affine come tipologia a quei lavori che
satirizzavano l’ambiente teatrale, ai quali appartiene anche un
altro lavoro scritto da Cimarosa nel 1786, L’impresario in angustie.

La Trama
Un maestro di cappella è intento nel mettere in musica un’aria in
“stil sublime” seguendo i dettami degli antichi maestri, ma quando
l’orchestra inizia a provare il brano l’effetto è catastrofico,
dato che ogni strumentista entra al momento sbagliato durante
l’esecuzione. Il maestro è quindi costretto a canticchiare volta
per volta la parte di ogni strumento; riesce alla fine a far
eseguire l’aria correttamente a tutta l’orchestra. Soddisfatto dal
successo ottenuto decide di provare un pezzo composto da lui
stesso, il “gran morceau”.

Rossini: L’Italiana in Algeri

 

« Tu mi dovresti trovar un’italiana.
Ho una gran voglia d’aver una di quelle signorine
che dan martello a tanti cicisbei »

L’Italiana in Algeri è un’opera lirica di Gioachino Rossini.

Il libretto di Angelo Anelli, un dramma giocoso in due atti, appartiene al genere dell’opera buffa ed era stato scritto per la musica di Luigi Mosca, autore pure lui di un’opera omonima rappresentata per la prima volta nel 1808. Com’era abbastanza d’uso allora, Rossini riprese lo stesso libretto (con alcuni cambiamenti affidati a Gaetano Rossi) e scrisse la sua opera con lo stesso titolo. Il melodramma venne rappresentato per la prima volta al Teatro San Benedetto di Venezia ed ebbe subito un ottimo successo, anche grazie alla compagnia di canto comprendente Maria Marcolini e Filippo Galli. Ancora oggi, insieme a Il barbiere di Siviglia e al Guglielmo Tell, è una delle opere di Rossini più rappresentata nei repertori di tutti i teatri lirici.

La trama
Atto I
Elvira, moglie del Bey, si lamenta con la sua confidente Zulma di aver perduto l’amore del suo sposo: ma si rassegnino le donne al loro triste destino di sofferenza, consigliano gli eunuchi del serraglio. Ed ecco sopraggiungere Mustafaà che con tono autoritario e arrogante tronca sul nascere ogni tentativo di Elvira di rientrare nelle sue grazie (“Serenate il mesto ciglio”). Rimasto solo con Haly, il capitano dei corsari, Mustafà si dichiara ormai stanco della moglie: Elvira sia dunque data in sposa al giovane schiavo italiano Lindoro e per lui invece i corsari catturino una nuova moglie italiana dal temperamento più vivace. Lindoro intanto, ormai da tre mesi ad Algeri, afflitto dalla lontanaza della sua bella, attende ardentemente il giorno del ritorno in patria (“Languir per una bella”) ma ora che Mustafà ha deciso di fargli prendere moglie Lindoro si sente in trappola e cerca di sottrarsi alla bizzarra proposta. (“Se inclinassi a prender moglie”).

Un vascello, gettato su uno scoglio da una burrasca, viene raggiunto dai corsari che portano poi a terra bottino e prigionieri (“Quanta roba, quanti schiavi”). Con essi sbarca isabella, che si era messa in viaggio per rintracciare Lindoro, il suo fidanzato: Circondata dai corsari Isabella, dopo l’iniziale sgomento, si rende conto che occorre farsi coraggio e giocare d’astuzia, sfoderando il meglio delle arti femminili(“Cruda sorte, amor tiranno”).

Con Isabella è catturato anche Taddeo, suo compagno di viaggio nonché suo irriducibile spasimante che ora però, data la nuova situazione, viene fatto da lei passare per suo zio. Appreso che si tratta di italiani, Haly esulta e predice a Isabella che sarà la prescelta del serraglio di Mustafà. Ciò basta a scatenare la gelosia di Taddeo, cui fa subito eco la reazione di Isabella irritata per uno spasimante così invadente. Ma i due non possono non rimanere uniti: dato il pericolo che incombe su di loro l’uno potrà aver bisogno dell’altro. (“Ai capricci della sorte”)

Il Bey riesce finalmente a convincere l’ostinato Lindoro a condurre via con se Elvira offrendogli in cambio la libertà e il tanto sospirato permesso di ritornare in Italia. Subito dopo giunge Haly che comunica al Bey l’arrivo della nuova prigioniera italiana. Mustafà, liquidate prontamente Elvira e Zulma, già sente infiammarsi per l’Italiana e si allontana con il suo seguito per accoglierla degnamente (“Gia’ d’insolito ardore”). Lindoro annuncia ad Elvira e Zulma che il vascello che li porterà in Italia è ormai pronto a salpare ma Elvira vuole ancora una volta rivedere Mustrafà.

Non appena gli viene presentata Isabella, subito il Bey rimane affascinato dalla sua bellezza e soprattutto dalla rete di lusinghe in cui la giovane l’ha già scaltramente imprigionato. Giungono a questo punto Lindoro, Elvira e Zulma che vogliono congedarsi dal Bey prima di partire per l’Italia. Alla vista di Lindoro, Isabella rimane per pochi istanti confusa ma subito riavutasi dalla sorpresa riesce a ribaltare la situazione: tra lo stupore generale intima a Mustafà di non lasciar partire e di non abbandonare lamoglie, e chiede per sé, come schiavo personale, Lindoro.

Atto II
Elvira, Zulma, Haly e gli eunuchi del serraglio ironizzano sul cambiamento improvviso del Bey, così abilmente raggirato dall’Iialiana (“Uno stupido, uno stolto”) Giunge quindi il Bey, bramoso di incontrarsi a quattr’occhi con Isabella, invia Elvira e Zulma ad annunciarle che fra mezzora sarà da lei a prendere il caffè. Intanto Isabella incontra Lindoro e dissipati i dubbi sulla presunta infedeltà di lui, decide di escogitare un piano per fuggire insieme da Algeri. Lindoro, finalmente ricongiunto all’amata, esulta di gioia (Oh, come il cor di giubilo”). Anche Mustrafà sta affilando le sue armi: pur di ingraziarzi Isabella, decide di nominare il presunto zio Taddeo “grande Kaimakan”, cioé protettore dei mussulmani. Abbigliato alla turca con sciabola e turbante, sempre di piu’ Taddeo avverte il ridicolo della sua posizione ma, temendo il peggio, si rassegna ai voleri del Bey. (“Viva il grande Kaimakan”,” Ho un gran peso sulla testa”).

Mentre Isabella dinanzi a uno specchio sta vestendosi alla turca, sopraggiunge Elvira portandole l’ambasciata amorosa del Bey. Indignata per un comportamento cosi’ sottomesso, Isabella invita Elvira ad essere piu’ decisa nei confronti di Mustafà e a seguire il suo esempio: per ora Elvira si ritiri nella stanza accanto; poi, al momento opportuno, Isabella le farà vedere come vanno trattati gli uomini. Sapendo che il Bey sta per arrivare, Isabella indugia ancora davanti allo specchio e finge di farsi bella per lui (“Per lui che adoro”) quindi si allontana. Mustafà, rimasto indietro a spiarla con Taddeo e Lindoro, cade in pieno nella trappola: acceso d’amore per una simile visione è impaziente di incontrarsi con lei. Ordina a Taddeo di assecondarlo e di ritirarsi poi al momento giusto, quando Mustafà si metterà a starnutire. Ritornata Isabella, la situazione si fa incandescente: Mustafà gia’ pregusta il frutto della sua conquista e con ripetuti starnuti invita lo “zio” a togliersi dai piedi. Taddeo, fremente di gelosia si ostina invece a rimanere, Isabella e Lindoro si divertono alle loro spalle finché, con un colpo a sorpresa, Isabella invita Elvira a prendere il caffé suscitando così le ire di Mustafà. Questi si sente giocato dall’italiana proprio ora che stava per concretizzare il suo progetto amoroso (“Ti presento di mia man”).

Haly gode del fatto che Mustafà, con tutta la sua boria, sta perdendo la testa per Isabella: non la si fa alle donne italiane, son troppo esperte nell’arte di farsi amare (“Le femmine d’Italia”). Ma la gelosia di Taddeo e la collera di Mustafà potrebbero compromettere la situazione. Lindoro rivela allora a Taddeo il piano di fuga escogitato da Isabella e Taddeo, nella sua vanita’, e’ convinto che lei faccia tutto ciò per amor suo. Sopraggiunge Mustafà, è contrariato per le civetterie di Isabella ma Lindoro prontamente l’assicura che la bella italiana spasima d’amore per lui e che vuole insignirlo con gran pompa solenne del titolo di “Pappataci” . La burla va a segno: al Bey, desideroso di conoscere il significato di tale onorificenza Lindoro, ormai con la complicità di Taddeo, risponde che il titolo spetta a chi, fra gli amori e le bellezze, sappia solo dormire, mangiare, bere e godersi la bella vita (“Pappataci, che mai sento”).

Si prepara quindi la finta cerimonia cui parteciperanno anche gli schiavi italiani vestiti da pappataci. A costoro e a Lindoro Isabella cerca di infondere coraggio ricordando che è ormai vicino il momento del loro ritorno in patria (“Pronti abbiamo e ferri e mani”, “Pensa alla patria”). Mustafà, vestito con gli abiti di pappataci, ripete le formule di giuramente che gli legge Taddeo: si impegna a mangiare e a bere senza curarsi di quel che vedrà o sentirà. Per metterlo alla prova Isabella e Lindoro si scambiano frasi amorose; Mustafà dapprima protesta ma poi, da vero Pappataci, fa finta di niente e continua a mangiare. E neanche reagisce quando un vascello si avvicina alla loggia del palazzo e imbarca Isabella e Lindoro insieme a tutti gli schiavo italiani. Naturlamente anche Taddeo, pur vedendosi tradito, si affretta a seguirli. E al Bey, riportato alla cruda realtà da Elvira, Zulma, Haly e dai suoi Eunuchi (fatti ubriacara da Isabella e resi inoffensivi), non rimane altra scelta che dimenticare le donne italiane e invocare il perdono della docile moglie.

 

Haydn: The seven last words of Christ

Le sette ultime parole di Cristo ( tedesco : Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze, “Le sette ultime parole di Nostro Salvatore sulla Croce” è una composizione di Joseph Haydn , con sette meditazioni sulle ultime parole di Gesù Cristo, commissionata nel 1787 per il Venerdì Santo di servizio presso la Grotta di Santa Cueva vicino a Cadice nel sud della Spagna . Il lavoro esiste in varie versioni, tra cui l’originale per orchestra, un oratorio con le forze vocali, e una trascrizione per quartetto d’archi.

Origine

Haydn stesso spiegò l’origine del lavoro nel 1801, quando l’editore Breitkopf & Härtel rilasciato una nuova edizione e gli chiese di scrivere una prefazione:

Circa quindici anni fa mi è stato richiesto da un canonico di Cadice a comporre musica strumentale sulle sette ultime parole del nostro Redentore sulla Croce.

Il pezzo è costituito da un’introduzione, sette sonate e un finale:

1.Introduzione, D minor, Maestoso ed Adagio Introduzione, re minore, Maestoso ed Adagio

2.Sonata I (‘Pater, dimitte illis, quia nesciunt, quid faciunt’), B flat, Largo Sonata I (‘Pater, dimitte illis, quia nesciunt, quid faciunt’), B flat, Largo

3.Sonata II (‘Hodie mecum eris in Paradiso’), C minor, Grave e cantabile, ending in C major Sonata II (‘mecum eris in Paradiso hodie’), do minore, Grave e cantabile, che termina in do maggiore

4.Sonata III (‘Mulier, ecce filius tuus’), E major, Grave Sonata III (‘Mulier, ecce filius tuus’), Mi maggiore, Grave

5.Sonata IV (‘Deus meus, Deus meus, utquid dereliquisti me’), F minor, Largo Sonata IV (‘Deus meus, Deus meus, dereliquisti utquid me’), fa minore, Largo

6.Sonata V (‘Sitio’), A major, Adagio Sonata V (‘Sitio’), la maggiore, Adagio

7.Sonata VI (‘Consummatum est’), G minor, Lento, ending in G major Sonata VI (‘Consummatum est’), Sol minore, Lento, che termina in sol maggiore

8.Sonata VII (‘In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum’), E flat, Largo Sonata VII (‘In manus tuas, Domine, commendo Spiritum meum’), Mi bemolle, Largo

9.Il terremoto, C minor, Presto e con tutta la forza Il Terremoto, Do minore, Presto e con Tutta La Forza

Walter Gieseking in famose interpretazini

 

 

 

 

 

 

 

Scarica qui le interpretazioni di Walter Gieseking

lato 1

Wolfgang A:Mozart
Quintetto in mi bemolle maggiore K.542
Walter Gieseking piano e il quartetto di fiati Philarmonia

Lato 2
Ludwig van Beethoven
Quintetto in mi bemolle maggiore Op.16

Walter Gieseking piano e il quartetto di fiati Philarmonia

Lato 3
Wolfgang A.Mozart
LIEDER
Elisabeth Schwarzkopf, soprano
Walter Gieseking, pianoforte

Lato 4
Wolfgang A.Mozart
LIEDER
Elisabeth Schwarzkopf, soprano
Walter Gieseking, pianoforte

Lato 5
Ludwig van Beethoven
Concerto N.1 in do maggiore Op.15 per pianoforte e orchestra
Walter Gieseking pianoforte e l’orchestra dell’opera di stato di Berlino duretta da Hans Rosbaud

Lato 6
Ludwig van Beethoven
Concerto N.4 in sol maggiore Op.58 per pianoforte e orchestra
Walter Gieseking pianoforte e l’orchestra della cappella di stato Sassone durettore Karl Bohm

Lato 7
Ludwig van Beethoven
Concerto N.5 in mi bemolle maggiore Op.73 “Imperatore” per pianoforte e orchestra
1 movimento allegro
Walter Gieseking pianoforte e l’orchestra filarmonica di Vienna direttore Bruno Walter

Lato 8
Ludwig van Beethoven
Concerto N.5 in mi bemolle maggiore Op.73 “Imperatore” per pianoforte e orchestra
2 movimento adagio un poco mosso
3 movimento rondò (allegro)
Walter Gieseking pianoforte e l’orchestra filarmonica di Vienna direttore Bruno Walter

Lato 9
Cesar Franck
Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra
Walter Gieseking, pianoforte e l’orchestra filarmonica di Londra diretta da Sir Henry I.Wood

Lato 10
Johann Sebastian Bach
1 Concerto italiano in fa maggiore
2 Minuetti 1 e 2 dalla partita N.1 in si bemolle maggiore
3 Jesu, Joy of man’s desiring
4 Giga dalla suite N.5
Walter Gieseking pianoforte

Lato 11
1 C.Sinding
Mormorio di primavera Op.32 N.3
2 Ludwig Van Beethoven
Bagatella in mi bemolle maggiore Op.33
3 G.F. Hendel
Il fabbro armonioso
4 F.Chopin
Preludio in fa maggiore Op.28 N.23
Walter Gieseking , pianoforte

Lato 12
1 F.Chopin
Valzer in re bemolle Op.64 N.1
2 F.Chopin
Mazurka in la minore Op.17 N.4
3 L.van Beethoven
Bagatella in la minore “Per Elisa”
4 R.strauss
Freundliche vision Op.48 N.1
5 R.Strauss
Standchen Op.17 N.2
Walter Gieseking, pianoforte

Rossini: La Gazza Ladra

Gioachino Rossini:

La Gazza Ladra
Rossini ha fatto una musica che non tramonta, che dopo quasi 200 anni è sempre attuale.
Se nasceva 150 anni dopo, rischiava di fare hard-rock o addirittura metallo pesante, tanta è l’energia che scorre nella sua musica. E sarebbe stato un nuovo Hendrix o un Miles Davis come importanza musicale.
L’ouverture di una delle sue più belle opere – prima rappresentazione 1817, un successo enorme – è meravigliosa da ascoltare in assoluto.

La bellezza della linea melodica, che viene ripetuta spesso, la cura degli arrangiamenti, l’alternanza tra i pianissimo e i fortissimo, il famoso “crescendo” rossiniano, l’orchestra che si esalta nel finale… tutte queste cose ti lasciano capire cos’è la musica, quella vera, quella che ti colpisce al cuore con la sua forza e fragilità, quella che ti fa sentire pronto a tutto, quella che ti colora la giornata.

La gazza ladra è un’opera lirica di Gioachino Rossini su libretto di Giovanni Gherardini.
Il soggetto fu tratto dal dramma La Pie voleuse ou La Servante de Palaiseau (1815) di Théodore Badouin d’Aubigny e Louis-Charles Caigniez. La prima rappresentazione ebbe luogo il 31 maggio 1817 al Teatro alla Scala di Milano. L’opera, un tempo famosissima, viene oggi rappresentata raramente, mentre è rimasta nel repertorio sinfonico la magnifica sinfonia dell’opera.
Secondo testimonianze dell’epoca la prima fu un grande successo. L’enorme popolarità dell’opera che durerà fino agli ultimi anni ’20 dell’Ottocento è dimostrata tra l’altro dai numerosi libretti e adattamenti

Trama:

Ninetta spera di sposare Giannetto, che è appena tornato dalla guerra, cerca di dare un rifugio al padre Fernando Villabella, disertore dell’esercito, ed è importunata dalle attenzioni del podestà, Gottardo. La sparizione di un semplice cucchiaio e la testimonianza di Isacco, l’ambulante, che ha acquistato un pezzo di argento che Ninetta le aveva venduto per raccogliere qualche soldo da dare al padre, porteranno alla sua incarcerazione. Ninetta viene processata e giudicata colpevole, e verrà salvata dal patibolo all’ultimo momento grazie alla scoperta del ladro, la gazza ladra del titolo.

Scarlatti: 30 sonate per cembalo

Domenico Scarlatti:
30 sonate pe cembalo.

K.9 (L.413)
K.115 (L.407)
K.124 (L.232)
K.132 (L.457)
K.133 (L.282)
K.206 (L.257)
K.208 (L.238)
K.209 (L.428)
K.215 (L.323)
K.216 (L.273)
K.238 (L.27)
K.239 (L.281)
K.259 (L.103)
K.260 (L.124)
K.308 (L.359)
K.309 (L.454)
K.394 (L.257)
K.395 (L.65)
K.402 (L.427)
K.403 (L.470)
K.429 (L.132)
K.430 (L.463)
K.446 (L.433)
K.460 (L.324)
K.461 (L.8)
K.481 (L.187)
K.490 (L.206)
K.491 (L.164)
K.492 (L.14)
K.513 (L. Supp. 3)