Scarlatti: Stabat Mater

 

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Lo Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenzacattolica del XIII secolo attribuito a Jacopone da Todi (sec. XIII; ma la questione è controversa).
La prima parte della preghiera, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di farlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e da Gesù durante la crocifissione e la Passione.
È importante notare che, anche se il testo è in latino, la struttura ritmica è quella del latino medievale e che poi sarà anche dell’italiano: non si hanno sillabe lunghe e brevi, ma toniche e atone, in una serie di ottonari e senari sdruccioli, che rimano secondo lo schema AAbCCb (oltre ad alcune rime interne).
È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’Addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì Santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti (si pensi solo a Scarlatti, Vivaldi, Pergolesi, Rossini).

Monteverdi: Vespro alla Beata Vergine

Vespro della Beata Vergine (Monteverdi)
Wiener Sangerknaben
Monteverdi-Chor Hamburg
Dirige Jurgen Jurgens
Il Vespro della Beata Vergine è una composizione musicale di Claudio Monteverdi. Vespro è un termine mutuato dalla liturgia delle ore della chiesa cattolica ed è rimasto invariato per più di 1500 anni. Esso è costituito da un determinato numero di salmi biblici. In particolare il Vespro della Beata Vergine è costituito da una introduzione (“Deus in adjutorium”), cinque salmi, musica sacra fra i vari salmi, un inno, un Magnificat e si conclude con un (“Benedicamus Domino”).
Storia e contesto
Il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi fu la sua prima opera sacra dopo il suo primo lavoro pubblicato ventotto anni prima. Esso assomma in sé stili antichi e moderni anche se non possono essere classificati come prima pratica e seconda pratica. Il Vespro fu pubblicato nel luglio del 1610 assieme ad una messa a sei voci che era una parodia del mottetto di Nicolas Gombert, In illo tempore loquante Jesu. Quattrocento anni dopo la sua pubblicazione, non siamo in grado di comprendere le intenzioni precise che mossero Monteverdi alla composizione di un lavoro così monumentale. Esso è stato oggetto di dibattiti fra musicologi per decenni e secondo Graham Dixon, il Vespro sarebbe stato molto indicato per la festività di Santa Barbara visto che i pezzi presi dal Cantico dei cantici sono adattabili a qualunque santa. Egli sostiene anche che aver dedicato il Vespro a Maria lo rendeva più importante. Vi sono diverse circostanze che supportano questa teoria: nel vespro esistono solo due canti mariani (Audi Coelum e Ave Maris Stella), la sonata è facilmente adattabile a qualunque altro nome di santa, ed il testo di Duo Seraphim è connesso a Santa Barbara (poiché essa è generalmente collegata alla Trinità).
Il Vespro venne pubblicato a Venezia nel 1610 quando il compositore prestava la sua opera alla corte dei Gonzaga a Mantova. Le fonti storiche non precisano dove avvenne la prima esecuzione se a Mantova o a Venezia. Occorre però dire che Monteverdi divenne maestro di cappella della Basilica di San Marco soltanto nel 1613.
Il Vespro è un lavoro monumentale scritto per un grande coro che possa coprire dieci parti vocali in alcuni movimenti e possa scomporsi cori separati in altri mentre accompagna ben sette differenti solisti nel corso dell’opera. Le parti strumentali sono scritte per violino e cornetto mentre la composizione del ripieno non è specificata dall’autore. Altrettanto non sono specificate le parti di canto piano e antifona da inserire fra i salmi ed il conclusivo Magnificat. Questo fa si che gli esecutori modifichino l’opera secondo l’organico che hanno a disposizione.
Il lavoro di Monteverdi, che ebbe per i vari pezzi un approccio unitario, guadagnò all’opera un posto nella storia della musica. L’opera non ha soltanto un valore intimistico, per i suoi momenti di preghiera, ma incorpora nel suo tessuto musica profana in un lavoro chiaramente dedicato ad una funzione religiosa. Esso comprende diverse forme compositive che vanno dalla sonata al mottetto all’inno al salmo, senza peraltro perdere di vista il tema religioso dell’opera. Il Vespro raggiunge una unità di scrittura costruita sul canto piano del gregoriano, che diventa un cantus firmus nell’opera monteverdiana.
Struttura dell’opera
  1. Versiculum et Responsorium: “Deus, in Adiutorium”
  2. Psalmus I: “Dixit Dominus”
  3. Concerto: “Nigra sum”
  4. Psalmus II: “Laudate Pueri”
  5. Concerto: “Pulchra es”
  6. Psalmus III: “Laetatus sum”
  7. Concerto: “Duo Seraphim”
  8. Psalmus IV: “Nisi Dominus”
  9. Concerto: “Audi coelum”
  10. Psalmus V: “Lauda Ierusalem”
  11. Sonata sopra Sancta Maria
  12. Hymnus: “Ave maris stella”
  13. Magnificat
Posizione dei mottetti
La posizione dei mottetti (chiamati sulla prima edizione “concerti”) Nigra Sum, Pulchra es, Duo Seraphim e Audi Coelum è discussa. La dicitura che compare sul frontespizio della prima edizione (“Sanctissimae Virgini / missa senis vocibus / ac vesperae pluribus decantandae / cum nonnullis sacris concentibus” cioè “Messa a sei voci [la Missa In Illo Tempore, n.d.T.] e vespri da cantarsi a più [voci], con alcuni concerti sacri”) suggerisce che i “concerti”, vale a dire i mottetti, siano da intendersi come pezzi separati. D’altra parte, la posizione che occupano nella pubblicazione, inseriti in mezzo i salmi, può indicare che essi siano da considerare parte del Vespro, quantunque potessero naturalmente essere eseguiti a parte in altre occasioni, come ad esempio presso la Corte dei Gonzaga a Mantova, dove Monteverdi prestava il suo servizio. È altresì discusso se questi mottetti possano sostituire nella liturgia le antifone e ne siano invece complementari

Debussy: Pelleas et Melisande

 

 

Pelléas et Mélisande

di Claude Debussy (1862-1918)

dal dramma omonimo di Maurice Maeterlinck
Drame lyrique in cinque atti e dodici quadri
Prima:
Parigi, Opéra-Comique, 30 aprile 1902

Personaggi:
Pelléas, nipote d’Arkel (T); Golaud, suo fratellastro (Bar); Arkël, re d’Allemonde (B); il piccolo Yniold, figlio di primo letto di Golaud (S); un medico (Bar): Mélisande (S); Geneviève, madre di Golaud e Pelléas (Ms); servi, poveri

L’unico dramma musicale portato a compimento da Debussy segna l’apertura del nuovo secolo e inaugura, con un profondo mutamento di stile e di linguaggio, il teatro lirico del Novecento. Per poter pervenire a un modello d’opera così nuovo e rivoluzionario, l’autore dovette lavorarvi per ben dieci anni, a partire dal suo primo incontro col dramma in prosa di Maurice Maeterlinck, alfiere del simbolismo letterario. Debussy acquistò il testo casualmente nell’estate del 1892, quando il dramma era ancor fresco di stampa; la lettura lo lasciò profondamente impressionato, ma fu la visione di Pelléas sulle scene dei Bouffes-Parisiens l’anno successivo che lo convinse a metterlo in musica. In effetti, quel testo corrispondeva esattamente a ciò che Debussy da tempo stava cercando: un dramma che si allontanasse dai modelli correnti di teatro borghese (ad esempio le pièces di successo d’un Sardou) e tanto di più dagli argomenti letterari e fantastici cari ai musicisti suoi contemporanei, più o meno influenzati dal teatro wagneriano. Già in una dichiarazione del 1889, raccolta da Maurice Emmanuel, Debussy sosteneva che il poeta dei suoi sogni avrebbe dovuto essere quello che «disant le choses à demi, me permettra de greffer mon rêve sur le sien», quel poeta che concepirà dei personaggi la cui storia e il cui ambiente non apparterranno ad alcun tempo e ad alcun luogo. Dunque con Pelléas le sue aspirazioni si trovavano improvvisamente realizzate, grazie a un testo che fa della reticenza, del mistero, della lontananza dalla storia la radice principale della sua poetica. Il musicista chiese a Maeterlinck l’autorizzazione a mettere in musica il suo dramma, e la ottenne senza problemi. Le difficoltà sorsero più tardi, quando Maeterlinck cercò d’imporre a Debussy, come interprete principale, sua moglie Georgette Leblanc. Debussy si rifiutò, e lo scrittore dichiarò allora pubblicamente di essere del tutto estraneo al progetto musicale di Pelléas et Mélisande , e di augurarsi il suo fiasco totale. Al tempo di questi contrasti, comunque, l’opera era ormi terminata, ma solo dopo un lavoro lento e certosino, che fece meditare a Debussy, nell’arco di un intero decennio, parola su parola e battuta su battuta. Nel gennaio del 1894, il musicista scriveva all’amico e collega Ernest Chausson: «Ho passato intere giornate a inseguire quel «niente» di cui è fatta Mélisande, e talvolta mi mancava persino il coraggio di raccontarvelo. Non se se vi siete mai addormentato, come me, con una vaga voglia di piangere, come se non si fosse potuto vedere durante la giornata una persona amatissima. Adesso è Arkël a tormentarmi: questi è un personaggio d’oltretomba e ha quella tenerezza disinteressata e profetica propria di chi sparirà tra breve. E tutto questo va detto con do, re, mi, fa, sol, la, si, do!!! Che mestiere!». La scelta più significativa di Debussy rispetto al testo letterario fu quella di non adattarlo a libretto ma di mantenere l’originale scrittura in prosa, limitandosi a tagliare alcune scene, sia per motivi di carattere estetico sia per ovvie ragioni di durata dell’opera. I tagli costituiscono, nella loro acuta intelligenza, un sensibile miglioramento al dramma di Maeterlinck, che rimane tuttavia pressoché integro nella lettera. Pertanto, Debussy fu il primo compositore a mettere in musica un testo teatrale preesistente così com’era stato scritto, scelta che si rivelò ancora una volta rivoluzionaria e che aprì la strada a un nuovo modo d’intendere il rapporto fra teatro di prosa e teatro musicale. I primi frutti di quella scelta si potranno già osservare nella Salome di Richard Strauss, rappresentata nel 1905 (soltanto tre anni dopo Pelléas ), dove anche il musicista bavarese si attenne fedelmente alla tragedia di Oscar Wilde, limitandosi a farla tradurre in tedesco da Hedwig Lachmann. La fedeltà alla prosa francese di Maeterlinck obbligò Debussy a inventare un modello originale di declamato lirico, capace in tutto di rispettare la prosodia del testo, con il risultato di dar vita a un’intonazione estremamente scorrevole e ‘parlante’, ma ricca d’incredibili sfumature espressive. Nel tracciare questo nuovissimo stile vocale, il musicista fece tesoro delle sue mélodies per voce e pianoforte, che negli anni immediatamente precedenti la gestazione di Pelléas , in particolare nel 1893, si aprono a uno sperimentalismo determinante per il linguaggio dell’opera futura: è il caso delle Proses lyriques , titolo già di per sé significativo (i testi sono dello stesso musicista), e delle Chansons de Bilitis (1897-98) su testi dell’amico Pierre Lou&yulm;s, nelle quali già par d’intendere la voce di Mélisande (non è certo un caso se la seconda di quelle Chansons , porta il titolo La Chevelure ). Si giunse finalmente, tra mille problemi e contrattempi, alla prova generale, fissata all’Opéra-Comique per il 28 aprile 1902, in un clima surriscaldato dall’attesa e dai pregiudizi che erano dilagati nella Parigi dei frequentatori dei teatri e degli artisti, grazie anche alle polemiche scatenate all’ultimo momento da Maeterlinck, che si era spinto fino al punto di sfidare a duello il compositore. All’ingresso del teatro venne distribuito un falso programma di sala, pieno di ironie sulla vicenda e di grevi doppi sensi (fu allora che nacque il calembour – tuttora popolarissimo – «Pédéraste et Médisante»). Alle prime sortite di Mélisande la gente già rideva di gusto, riso che si trasformò in sghignazzo quando la protagonista dice a bassa voce «Non sono felice», al che immediatamente il loggione replicò: «Neppure noi!». Solo pochi restarono fino al termine dello spettacolo per applaudire Debussy, e fra questi Valéry, Mirbeau e Régnier. Alla première vera e propria si formarono invece due partiti contrapposti, e i difensori di Pelléas , incarnati dal gruppo degli «Apaches» che comprendeva anche il giovane Ravel, riuscirono a zittire i molti spettatori di fede wagneriana intenzionati a far cadere l’opera. Invece, a partire dalle prime repliche, Pelléas riuscì a imporsi, fino a diventare un testo alla moda, con schiere di accaniti e sacerdotali difensori. André Messager fu il primo direttore d’orchestra dell’opera, mentre Albert Carré (direttore artistico dell’Opéra-Comique) curò la regia e Lucien Jusseaume le scene e i costumi; questo allestimento fu utilizzato fino al 1927 e poi ripreso anche a partire dagli anni Cinquanta, grazie alla ricostruzione di Deshays. La prima Mélisande fu il celebre soprano Mary Garden, una scozzese destinata a divenire uno dei miti vocali d’inizio secolo («Non posso concepire timbro più dolcemente insinuante», dichiarava Debussy a proposito della sua avvenente prima protagonista). Pelléas fu Jean Périer e Hector Dufrane vestì per primo i panni di Golaud. Da allora, l’opera ha avuto in tutto il mondo allestimenti importantissimi, ed è stata affrontata dai più grandi direttori d’orchestra del secolo: in Francia, gli eredi più autorevoli di Messager furono Désiré-Emile Inghelbrecht, Albert Wolff, Roger Desormière (autore nel 1942 d’una fondamentale registrazione in disco dell’opera, con i suoi più celebrati interpreti vocali, Jacques Jansen e Irène Joachim), Ernest Ansermet, André Cluytens, Jean Fournet e Manuel Rosenthal. La prima italiana fu data alla Scala il 2 aprile 1908, per merito di Arturo Toscanini che ne fu anche il direttore (un’altra celebre rappresentazione, sempre sotto la sua bacchetta, e con regia di Giovacchino Forzano, fu realizzata alla Scala nel 1925). Tra gli altri grandi interpreti di Pelléas nel tempio lirico milanese si ricordano Victor de Sabata (1949 e 1953), Georges Prêtre (1973) con la fascinosa messa in scena di Gian Carlo Menotti e Rouben Ter-Arutunian, e soprattutto Claudio Abbado, la cui incandescente lettura è da considerare uno dei vertici assoluti nella recente storia esecutiva dell’opera di Debussy: il meraviglioso allestimento di Antoine Vitez, con scene e costumi di Yannis Kokkos, fu presentato nel 1986, e poi riproposto alla Staatsoper di Vienna. Tra le altre produzioni di Pelléas si distinguono quella affidata a Pierre Boulez dal Covent Garden di Londra nel 1969: si trattò di una rilettura radicale, che cancellava i toni flou e il monotono simbolismo della tradizione francese, per consegnare l’opera a un «teatro della paura e della crudeltà» di matrice strindberghiana. Boulez ha affrontato di nuovo Pelléas nel 1992 alla Welsh National Opera di Cardiff, in occasione di una messa in scena stilizzatissima firmata da Peter Stein; a distanza di quasi un quarto di secolo, la lettura del grande compositore-direttore francese è tornata parzialmente nel solco della tradizione, con un evidente smussamento delle asperità e del taglio drammatico assai più consono alla poesia del mistero debussyano. Infine, fra gli altri grandi interpreti di Pelléas si deve menzionare Herbert von Karajan, che ha spostato interamente l’attenzione sull’orchestra, ottenendo sonorità impalpabili e una collocazione fiabesca del dramma di marca squisitamente estetizzante.
Atto primo . Quadro primo . Golaud si è smarrito nella foresta inseguendo un cinghiale (“Je ne pourrai plus sortir de cette forêt”). Scorge una fanciulla sola, che piange al bordo di una fontana. La interroga e ne riceve solo risposte vaghe e impaurite: qualcuno le ha fatto del male, si chiama Mélisande e ha perduto nell’acqua della fontana una corona. Golaud le offre di portarla con sé e la fanciulla acconsente (Interludio sinfonico). Quadro secondo . In un appartamento del castello, Geneviève legge al vecchio Arkël, re d’Allemonde, una lettera di Golaud al suo fratellastro Pelléas (“Voici ce qu’il écrit a son frère”), nella quale gli comunica d’aver sposato da sei mesi una bellissima fanciulla, di cui però ignora tutto. Vuole tornare al castello ma teme l’ira di Arkël: se vedrà una torcia accesa sulla torre, sarà segno che la sua nuova sposa è bene accetta. Entra Pelléas, che manifesta l’intenzione di partire per recar visita a un amico moribondo. Arkël lo trattiene, ricordandogli che anche suo padre è in fin di vita. Geneviève invita Pelléas ad accendere la torcia sulla torre (Interludio sinfonico). Quadro terzo . Mélisande, accompagnata da Geneviève che cerca di rincuorarla, è all’ingresso del castello. Giunge Pelléas e annuncia un’imminente tempesta di mare. Geneviève lo prega di tener compagnia a Mélisande mentre lei s’occuperà del piccolo Yniold. Pelléas annuncia alla cognata che forse partirà l’indomani.
Atto secondo . Quadro primo . Davanti a una fontana nel parco, Pelléas e Mélisande stanno conversando. La fanciulla vorrebbe toccare l’acqua della fontana, ma è troppo profonda; vi immerge i suoi lunghissimi capelli, poi gioca con l’anello che le ha regalato Golaud, finché l’anello le sfugge di mano e si perde nell’acqua: non sarà più possibile recuperarlo. Mélisande si chiede allora cosa potrà raccontare a Golaud: «la verità, la verità», le risponde Pelléas (Interludio sinfonico). Quadro secondo . Golaud è costretto a letto per una caduta da cavallo; racconta che l’animale s’è imbizzarrito proprio mentre suonava mezzogiorno (cioè nel momento esatto in cui Mélisande perdeva il suo anello). Mélisande, al suo capezzale, scoppia in lacrime; Golaud le chiede se qualcuno le abbia fatto del male, ma Mélisande risponde che neppure lei sa la causa della sua infelicità, forse la colpa è del lugubre aspetto del castello, dal quale vorrebbe andar via. Golaud la consola e nel prenderle le mani si accorge che non ha più il suo anello al dito. Mélisande dice d’averlo perduto in riva al mare, davanti alla grotta, e Golaud le impone d’andarlo a cercare, facendosi accompagnare da Pelléas (Interludio sinfonico). Quadro terzo . Di notte, i due cognati si sono recati alla grotta, perché Mélisande sia in grado di descriverla in caso Golaud glielo chieda. Un raggio di luna spezza l’oscurità e nel fondo della grotta appaiono le sagome di tre vecchi mendicanti addormentati. Mélisande si spaventa e chiede a Pelléas di ricondurla subito al castello.
Atto terzo . Quadro primo . Di notte, affacciata alla finestra della torre, Mélisande si pettina (“Mes longs cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour”). Pelléas si avvicina ai piedi della torre: chiama Mélisande e le annuncia che l’indomani partirà. Quindi chiede di poterle baciare la mano: Mélisande si sporge e i suoi lunghi capelli cadono a cascata su Pelléas, che li bacia inebriandosi. All’improvviso, entra in scena Golaud che rimprovera i due cognati per le loro ragazzate (Interludio sinfonico). Quadro secondo . Golaud porta Pelléas nei sotterranei del castello, e gli fa contemplare le acque stagnanti di quel luogo (“Eh bien, voici l’eau stagnante dont je vou parlais”). Le mani di Golaud tremano, e Pelléas se ne accorge dal movimento della lanterna. Egli chiede di uscire, perché si sente soffocare dai miasmi provenienti dall’acqua putrida (Interludio sinfonico). Quadro terzo . Uscito dai sotterranei, Pelléas respira (“Ah, je respire enfin”). Vede poi Mélisande alla finestra con Geneviève, e Golaud lo mette in guardia: scene come quella cui ha assistito ai piedi della torre non si devono ripetere, giacché Mélisande ora è ancor più fragile, e aspetta un bimbo (Interludio sinfonico). Quadro quarto . Golaud cerca di sapere da Yniold cosa fanno Pelléas e Mélisande quando sono soli. Il piccolo risponde che discutono della porta, che non può restare aperta, che sono tristi e non vogliono che lui li lasci soli, e una volta si sono baciati sulle labbra. Golaud prende allora sulle spalle il piccolo Yniold perché osservi dalla finestra cosa fanno i due cognati: sono soli, tacciono, non fanno niente. Poi Yniold si spaventa per l’irruenza del padre nel chiedergli la descrizione della scena e lo prega di farlo scendere.
Atto quarto . Quadro primo . Pelléas incontra Mélisande e le annuncia che sta per partire, giacché suo padre sta meglio. Prima di partire però le chiede di incontrasi con lei ancora una volta, a sera, presso la fontana. Entra Arkël, che si rallegra per il miglioramento del figlio. Colma Mélisande di tenerezza, e si compiace che la sua vita al castello sia meno triste. In quel mentre, entra Golaud, agitatissimo. respinge Mélisande, prende la spada, e getta a terra la moglie prendendola per i capelli (“Une grande innocence”). Interviene Arkël e Golaud finge d’essersi calmato, ma Mélisande comprende che il marito non l’ama più ed esprime tutta la sua infelicità (Interludio sinfonico). Quadro secondo . Davanti alla fontana nel parco, il piccolo Yniold cerca di sollevare una grossa pietra per recuperare la sua pallina d’oro. Giunge da lontano il rumore di un gregge di pecore. Yniold le osserva passare, spinte dal pastore, e chiede a quest’ultimo perché le pecore improvvisamente tacciano. Il pastore gli risponde che quello non è il percorso che conduce all’ovile. Agitato, Yniold cerca allora di sapere dove vanno le pecore, poi parte perché sta calando la sera. Entra Pelléas, per incontrarsi alla fontana con Mélisande per l’ultima volta (“C’est le dernier soir”). Le dirà tutto ciò che finora le aveva taciuto. Mélisande giunge e Pelléas le dichiara finalmente il suo amore: per tutta la vita ha cercato la bellezza e finalmente in lei l’ha trovata (“On dirait que ta voix a passé sur la mer au printemps”). Anche Mélisande gli confessa di averlo amato fin dal primo momento. Si sentono dei rumori. È Golaud, che sopraggiunge armato; i due si baciano appassionatamente, e in quell’amplesso Golaud colpisce a morte Pelléas. Mélisande fugge nel bosco, inseguita da Golaud.
Atto quinto . Intorno al capezzale di Mélisande, morente benché ferita da Golaud solo leggermente, stanno Arkël, Golaud e un medico. Mélisande si desta dal suo torpore, vuole che si apra la finestra e chiede chi sia nella stanza. Golaud vuole poi restar solo con Mélisande, le chiede perdono e domanda se il suo amore per Pelléas è stata una passione colpevole. Mélisande nega, e Golaud insiste, chiedendole se è la verità. Mélisande non risponde, e lo lascia nella tortura del dubbio. Frattanto il medico e Arkël rientrano: Mélisande ha freddo, ma non vuole che si chiuda la finestra. Le viene portate la sua bimba, nata da poco, ed ella non ha la forza di prenderla in braccio. Entrano le ancelle, mentre Golaud implora Mélisande piangendo. Quando le ancelle s’inginocchiano, Arkël impone a Golaud di uscire: Mélisande è morta, ora c’è bisogno solo di silenzio, e di prendersi cura della piccola neonata, che continuerà a vivere per lei.
La lunga gestazione di Pelléas ha tra le sue cause molteplici un rovello particolare e costante per Debussy: evitare il più possibile di cadere nella tentazione wagneriana e, peggio, di far assomigliare la sua opera a un Tristano e Isotta francese. Il rapporto di Debussy con Wagner è infatti un tipico esempio di rapporto di amore-odio. Se da un lato le prese di posizione del musicista sono più o meno tutte di natura polemica (se non sarcastica) nei confronti del Gesamtkunstwerk wagneriano, nondimeno la sua formazione e la sua squisita sensibilità estetica non potevano non ammirare, e profondamente, il genio di Bayreuth. Così, se Pelléas si allontana dal dramma musicale wagneriano per la scelta di un testo in prosa e per la conseguente rigenerazione del canto sulla prosodia e sul tono di conversazione («Au théâtre de musique on chante trop», sosteneva Debussy già nel 1889), d’altra parte Debussy fece suo il sistema dei motivi conduttori, spostando però il loro luogo deputato di raccordo psicologico e architettonico alla sola orchestra. A differenza di ciò che accade in Wagner, le voci di Pelléas non fanno mai proprio uno dei tanti temi coi quali è intessuta la partitura. Quanto grande poi sia il debito – criticamente rivissuto – di Debussy nei confronti di Wagner è straordinariamente evidente fin dalla prima apparizione del tema di Golaud, modellato fin quasi al calco sulla Verwandlungsmusik del primo atto di Parsifal , che nel canone wagneriano fu certo il testo più amato e studiato dal musicista francese. Se l’architettura musicale dell’opera risente di un wagnerismo depurato d’ogni enfasi epica e filosofica, e ricondotto a nudo sistema di costruzione motivica, la ricchezza timbrica di Pelléas e il nuovissimo modellato parlante delle linee vocali sono figli piuttosto della conoscenza dell’opera di Musorgskij. Debussy aveva fatto il suo primo incontro con la partitura di Boris Godunov nel 1889, e le sue conoscenze della scuola nazionale russa si ampliarono sensibilmente nel 1896, in occasione di alcune conferenze parigine di Pierre d’Alheim e Marie Olenin. Alla vigilia di Pelléas , nel 1901, Debussy fece uscire un articolo sulla ‘Revue blanche’ in cui esaltava senza riserve la grandezza del ciclo di liriche musorgskiano La camera dei bambini : «Personne n’a parlé à ce qu’il y a de meilleur en nous avec un accent plus tendre et plus profond». Senza l’assimilazione del canto prosodico di Musorgskij, la vocalità di Pelléas sarebbe stata certo assai diversa. Lo stesso si può dire per l’armonia, con i suoi modalismi, e per la strumentazione, che in certi casi giunge fino a citare alla lettera il capolavoro teatrale del compositore russo: si veda, per esempio, l’Interludio sinfonico tra la prima e la seconda scena del primo atto, immediatamente avanti la lettura della lettera di Pelléas da parte di Geneviève, dove Debussy ricalca genialmente l’accompagnamento orchestrale sulla prima scena di Pimen nel primo atto del Boris . Tuttavia, se un’assimilazione critica dei linguaggi di Wagner e Musorgskij è fra le matrici innegabili di Pelléas , pure la grande portata della rivoluzione stilistica e lessicale di quest’opera è frutto principalmente del suo autore, che già nel Prélude à l’après-midi d’un faune del 1892-94 aveva perfettamente mostrato un’indipendenza assoluta, nell’armonia come nella melodia, sia rispetto al linguaggio accademico sia rispetto alle esasperazioni cromatiche di marca wagneriana tanto care a tutti i suoi contemporanei francesi, Franck in testa. Gli «accordi incompleti, fluttuanti» che la sua anarchia armonica consegnerà maturati alla scrittura di Pelléas sono senza dubbio alcuno la cifra più personale di questo padre della musica moderna, nume tutelare di tutto il Novecento. Su quella base armonica innovativa e sospesa, l’orchestra si fa carico del difficile compito di unire le brevi scene di un testo che rinuncia all’unità di tempo distribuendo l’azione in una regione del sogno e dell’indeterminato, assai pericolosa per l’efficacia drammatica. La scommessa fu vinta a usura, perché l’unità di Pelléas et Mélisande è garantita anche dalla sfaccettatura espressiva, sempre appannaggio dell’orchestra, dei personaggi che vi agiscono, appena tratteggiati da Maeterlinck e resi invece vivi, commoventi, da Debussy: laddove il dramma è fatto spesso di silenzi e reticenze, di mistero fin troppo didascalicamente simbolista, il musicista riesce col solo ausilio di una preziosa e palpitante cornice sonora a rendere credibili le silhouettes quasi fantasmatiche che mette in scena. D’altronde, solo la superficie di Pelléas appartiene al mondo poetico di Maeterlinck: la sostanza profonda dell’opera è alimentata dalla lettura di Edgar Allan Poe, autore carissimo a Debussy, e in particolare da The Fall of the House of Usher , che qualche anno più tardi il musicista tenterà anche di trasformare in opera (? La Chute de la maison Usher ). I dettami di ambiguità, di indefinitezza propri all’ambiente simbolista si caricano quindi nella partitura debussyana dei misteri dell’inconscio, del morboso, dell’incubo. In tempi recenti, una lettura del capolavoro lirico di Debussy in questa chiave ha finalmente permesso il superamento di quell’immagine monotona e vaga che la tradizione interpretativa aveva fatto vivere per quasi settant’anni dalla prima. Il merito della ‘riscoperta’ di ciò che di turbato e crudele informa la musica di Pelléas deve essere attribuito specialmente a Pierre Boulez, che è stato, oltre che direttore di due interpretazioni capitali dell’opera in teatro e in disco, anche acutissimo esegeta della scrittura e dei contenuti di Pelléas . Come accade per tutte le più grandi opere d’arte, si può dire che anche per Pelléas sia da poco iniziata una nuova giovinezza, all’insegna di una radicale riconsiderazione dei suoi valori stilistici e poetici, che parte proprio dalla sottolineatura degli elementi legati più a Poe che a Maeterlinck e a tutta la tradizione simbolista, dalla quale – impossibile trascurarlo – Debussy comunque deriva, ma in cui tuttavia non si può circoscrivere il suo lavoro. L’indivisibile complementarità di simbolo e inconscio fa di questo testo anti-operistico, anti-realistico, anti-effettistico e anti-eroico (Nicolodi) una pietra miliare e un punto di partenza nella complessa evoluzione del teatro musicale contemporaneo.

Haydn: La fedelta’ premiata

Kammerorchester  Lausanne Dirigent: Antal Dorati

 La Fedeltà premiata

di Joseph Haydn (1732-1809)

libretto di Giambattista Lorenzi

Dramma giocoso in tre atti

Scarica qui La fedeltà premiata di Haydn

Prima:
Esterháza, 25 febbraio 1781

 

Personaggi:
la dea Diana (S); Lindoro, fratello di Amaranta, addetto al servizio nel tempio di Diana (T); Nerina, ninfa volubile in amore (S); Fillide, sotto il finto nome di Celia, amante di Fileno (S); Fileno, amante di Fillide (T); Amaranta, donna vana e boriosa (S); il conte Perucchetto, uomo di umore stravagante (B); Melibeo, ministro del tempio di Diana (B); ninfe, cacciatori, cacciatrici, pastori

Questo vasto lavoro, scritto nel corso del 1780 per la riapertura del teatro di Esterháza che era bruciato l’anno precedente, è, forse a causa dell’importante occasione per cui venne composta, tra le più notevoli opere di Haydn per raffinatezza e originalità della partitura, nonché per la caratterizzazione mossa e interessante della galleria dei personaggi.
Gli abitanti di un villaggio vicino a Cuma devono sacrificare ogni anno una coppia di amanti fedeli a un mostro marino, come atto riparatore verso la dea Diana. Nell’imminenza del sacrificio, Amaranta si reca al tempio dove viene consolata dal sacerdote Melibeo, innamorato di lei. Improvvisamente irrompe il conte Perucchetto inseguito da bestie feroci. Davanti agli occhi esterefatti di Melibeo, Amaranta e il conte danno a vedere di piacersi vicendevolmente. Nel frattempo Nerina, cui il suo amante Lindoro ha preferito la bella Celia, racconta la propria patetica storia a Fileno. Questi le promette di intercedere per lei presso Celia, ma scopre che quest’ultima è in realtà la sua ex amante, il cui vero nome è Fillide. La ragazza nega, ma interviene Melibeo che le ordina di scegliere se dedicarsi a Lindoro o venire sacrificata insieme al proprio amante. La decisione viene rimandata dall’irrompere di un gruppo di satiri, che rapisce Celia. La ragazza riesce però a liberarsi: possono così continuare le schermaglie amorose fra le diverse coppie. Fileno ha intanto preso a corteggiare Nerina per vendicarsi della supposta infedeltà di Celia. Viene allora organizzata una festa dedicata a Diana, che si apre con una caccia: Amaranta, minacciata da un cinghiale, viene salvata dall’arco di Fileno. Al risveglio della donna, che nel frattempo è svenuta, il conte Perucchetto si millanta autore dell’eroica impresa (mentre in verità era salito su un albero per sfuggire all’animale). Fileno, ancora angosciato a causa di Celia, vorrebbe uccidersi, ma, nell’incidere un messaggio d’addio sul tronco di un albero, spezza maldestramente il coltello che gli occorre per il suicidio. Celia scopre il messaggio e, disperata, fugge in una caverna. Interviene allora l’insidioso Melibeo, che avverte il conte che Celia sta aspettandolo nella caverna: colpo di scena, la ragazza e il conte si vedono condotti all’altare dei sacrifici quali vittime prescelte per il mostro. Invano Amaranta e Lindoro si oppongono. Fileno decide allora di morire prima di Celia e si tuffa nel mare, dal quale emerge il mostro, suscitando il panico generale. Commossa da questo gesto di amore fedele, Diana compare a salvare il giovane e perdona gli abitanti del villaggio. Le coppie vengono allora riunite (Amaranta e il conte, Celia e Fileno, Lindoro e Nerina), mentre il malvagio Melibeo è incenerito dal fulmine della dea.

La fedeltà premiata è un dramma giocoso (scritto da Lorenzi per Cimarosa nel 1779, con il titolo L’infedeltà fedele ) in cui sia l’elemento serio sia quello comico si compenetrano in modo suggestivo. Sul versante buffo, la figura stravagante del conte dà il meglio di sé quando si trova a fronteggiare gli animali feroci; la sua comica entrata, con l’aria “Salva… salva… aiuto”, è un’evidente parodia dei modi serissimi dello Sturm und Drang . Il suo saliscendi dall’albero per timore del cinghiale viene descritto da una musica di gioiosa, spontanea vitalità. Un’altra situazione comica è rappresentata dal recitativo e aria di Fileno, che segue la rottura del coltello del suicidio (“Bastano i pianti” e “Recida il ferro”). Anche il versante serio-patetico riceve però debita attenzione, specialmente attraverso il personaggio di Celia; le spettano infatti sia l’aria “Deh soccorri un infelice”, in cui è inserita una parte di corno ‘con sordino’ (trascritta per fagotto quando il cornista di Esterháza non fu più disponibile), e la grandiosa scena “Ah, come il core”, reazione al supposto suicidio di Fileno, con flauto obbligato. L’eccezionale cura che Haydn riservò alla partitura risalta nell’aria di Fileno “Miseri affetti miei”, che alterna sezioni in Allegro di molto, Adagio e Presto, dando origine a una struttura inconsueta e ricca di sorprese: insieme ai complessi finali del primo e del secondo atto, dà veste teatrale alla consuetudine di Haydn con le forme strumentali classiche – la sinfonia, il quartetto – che giunge a influire in modo determinante sulla sua idea del teatro musicale.

Mozart: concerti per piano e orchestra

 

Lato A:
Concerto per pianoforte e orchestra n.23 in la maggiore K.488

1               allegro
2               adagio
3               allegro assai 

Lato B
Concerto per pianoforte e orchestra n.19 in fa maggiore K.459
(Dell’Incoronazione)

1               allegro
2               allegretto
3               allegro assai

Maurizio Pollini, piano
Orchestra filarmonica di Vienna
Dirige: Karl Bohm

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