Si tratta di 8 lp dedicata Beethoven.
Si tratta di una raccolta di 8 lp
dedicati al grande Mozart.
Si tratta di tre lp con musiche di Vivaldi, Telemann, Arne, Corelli, Handel,
Bach, Fasch
Sette lp dedicati a Bach
Jascha Heifetz fu un violinista statunitense di origine lituana considerato tra i più grandi interpreti del novecento per la sua tecnica brillante e il suo virtuosismo.
Scarica qui Israele in Egitto di Handel
Oratorio in due parti per soli, coro e orchestra
Musica: Georg Friedrich Händel
Testo: Charles Jennens dall’Esodo I, II e XV, e Salmi 105 e 106
Organico: 2 soprani, contralto, tenore, 2 bassi, doppio coro misto, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 fagotti, 2 trombe, 3 tromboni,
timpani, 2 violini, viola, violoncello, contrabbasso, organo, clavicembalo
Composizione: 1738
Prima esecuzione: Londra, King’s Theatre in the Haymarket, 4 aprile 1739
Edizione: J. Walsh, Londra, 1748 – 1759
Guida all’ascolto 1 (nota 1)
Georg Friedrich Händel diresse la prima esecuzione di Israel in Egypt il 4 aprile 1739, quaranta giorni dopo aver compiuto i
cinquantaquattro anni d’età. Durante il suo soggiorno quasi trentennale in Inghilterra si era dedicato principalmente all’allestimento
di opere italiane, nella doppia veste di autore ed impresario. Furono gli ultimi disastrosi rovesci economici di questa attività a
convincere il compositore dell’opportunità di abbandonare l’opera e di ricercare il successo del pubblico per altre strade.
Assai più che da un’intima esigenza religiosa – come pure talvolta si è sostenuto – l’approccio al genere oratoriale ebbe origine
dunque da esigenze di puro mercato, da quell’ottica di consumo immediato che sovrintende a tutta, o quasi, la produzione barocca.
I primi oratori inglesi di Händel (primi dopo le sporadiche esperienze giovanili italiane), Esther, Deborah, Athalia, dei primi
anni 1730, Saul e Israel in Egypt, della fine di quel decennio, furono eseguiti nelle stesse sale che accoglievano le ultime opere
italiane del compositore, alternative edificanti a queste ultime (e giova ricordare che neanche in seguito, nonostante il contenuto
edificante, gli oratori ebbero destinazione religiosa, bensì sempre profana).
Israel in Egypt, dunque, rientra nella prima fase dell’oratorio händeliano, ricca di incertezze e di ripensamenti. Infatti gli esiti
dei primi oratori presso il pubblico inglese erano stati piuttosto stentati, e lo stesso compositore esitò non poco prima di impegnarsi
decisamente nel nuovo genere; per convincersene basta osservare il lasso di tempo che intercorre fra l’Athalia del 1733, e i due oratori
composti nell’estate-autunno del 1738, Saul e Israel in Egypt. ben cinque anni, nel corso dei quali l’autore compose undici nuove partiture operistiche. La spinta decisiva a tentare il nuovo corso venne dal disastroso naufragio del Serse, nell’aprile 1738; la nuova stagione operistica, annunciata alla fine di maggio, suscitò un interessamento così modesto che venne cancellata il 25 luglio. Il giorno seguente Händel iniziava la composizione del Saul. Subito dopo il completamento del Saul – nel corso della cui gestazione, peraltro, venne abbozzata anche l’opera Imeneo – seguì Israel in Egypt.
Occorre dunque confinare nel limbo delle idealizzazioni romantiche la diceria secondo la quale il nuovo oratorio avrebbe visto la luce
senza commissioni esterne, ma sotto la spinta di motivazioni “interiori”, come testimonianza di ringraziamento per la riacquistata salute,
dopo la paralisi che aveva colpito l’autore nel 1737. È vero piuttosto che Händel avvertiva la necessità di sondare nuove strade,
che gli consentissero di mantenere il suo riconosciuto primato nella patria d’adozione. A queste motivazioni generali se ne possono
forse aggiungere altre più specifiche. Già nel 1909 R.A. Streatfeild, e più recentemente Winton Dean, hanno sostenuto che Israel in Egypt sarebbe stato concepito in origine non già come oratorio, ma come anthern, cioè come inno sacro, la cui commissione sarebbe da porsi in relazione con il clima di guerra del momento (il paventato conflitto con la Spagna).
Non a caso piuttosto oscura è la genesi dell’oratorio. Innanzitutto è inusuale, rivoluzionario, il fatto che il testo poetico provenga interamente dalle sacre scritture; prassi invece obbligata per gli anthems. lì testo è tratto dall’Exodus e dai salmi 105, 78 e 106, secondo un montaggio originale che in genere viene ascritto allo stesso Händel; e tuttavia non è da escludersi che nella definizione del libretto sia intervenuto Charles Jennens, il librettista che aveva già fornito il testo di Saul e che avrebbe collaborato ancora per L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato, The Messiah e Belshazzar. Diffìcile, in secondo luogo, spiegare i motivi che possono aver indotto Händel a comporre l’oratorio partendo dalla seconda delle due parti (Moses’ song, abbozzata fra il 1° e l’11 ottobre, secondo le date riportate sull’autografo), per risalire poi alla prima (Exodus, abbozzata fra il 15 e il 20 ottobre).
Si aggiunga un altro fatto: che fra tutte le partiture oratoriali di Händel Israel in Egypt è probabilmente quella che fa ricorso in misura più massiccia, di gran lunga superiore alla media, a materiale preesistente, proprio di Händel e anche di altri autori. Una prassi legata frequentemente allo scarso tempo a disposizione, alla fretta, che sembra confermata dai rapidissimi tempi di stesura; ma per spiegare tale fretta occorre pensare a una precisa commissione esterna, poi rientrata. Fu così che Händel pensò verosimilmente di trasformare quanto aveva scritto in un oratorio in tre atti, premettendo in blocco all’Exodus e al Moses’ song, quale primo atto (ma con diverso titolo: Lamentations of the Israelites for the death of Josef), una sua precedente composizione, The ways of Zyon do mourn, l’anthern funebre per la regina Carolina, eseguito ai funerali della sovrana in Westminster Abbey il 17 dicembre 1737 (ed è questo il motivo per cui l’autografo dell’Exodus reca l’intestazione di “atto secondo”).
In questa versione di tre grandi anthems giustapposti, dunque, Israel in Egypt venne eseguito al King’s Theater il 4 aprile 1739, ottenendo un sostanziale insuccesso. Non è difficile comprenderne le ragioni. Da una parte venne discussa l’opportunità di impiegare testi sacri in teatro; dall’altra la composizione, ancorché data in quaresima, era veramente “penitenziale” per un pubblico teatrale, poiché comprendeva appena quattro arie solistiche contro circa quaranta cori. Non a caso alla seconda esecuzione l’oratorio venne complessivamente abbreviato (fu omessa la prima parte, desunta dall’anthem funebre) ma inframezzato da quattro nuove arie (una, in inglese, dall’Athalia; le altre tre, in italiano, dalle aggiunte scritte nel 1737 per Esther), tutte cantate da una beniamina del pubblico londinese, Elisabeth Duparc, detta “la Francesina”. Ma l’oratorio non incontrò consensi né in questa occasione, né nella ripresa dell’anno seguente, né nel recupero operato da Händel quasi venti anni più tardi, nel 1756, 1757 e 1758, quando le Lamentations of the Israelites for the death of Josef vennero definitivamente espunte e sostituite con il primo atto del Salomon in forma abbreviata.
Paradossalmente, proprio le cause all’origine di questo pertinace insuccesso – la presenza del testo sacro e la preponderanza corale – giovarono alle riprese di Israel in Egypt in epoca romantica, quando il lavoro si impose, a fianco del Messiah (altro oratorio anomalo), come capolavoro dell’ispirazione religiosa di Händel. L’identificazione fra la massa corale e il popolo d’Israele rispondeva in pieno alla ricerca, propria dei romantici, di una musica che esprimesse l’identità di un popolo. Così nel 1859 Henry Chorley poteva definire la partitura come «qualche cosa di completamente a sé stante, isolato, fra tutte le altre opere esistenti nel campo della musica corale descrittiva». Si aggiunga l’assenza di una vera e propria trama, di una drammatizzazione, che allontanava l’oratorio dall’ambito allora più che sospetto dell’opera metastasiana, per avvicinarlo al prototipo dell’opera religiosa romantica, segnata da un rapporto diretto, “personalizzato” fra l’autore e la divinità. Un sostanziale fraintendimento, insomma, cui corrispose in sede esecutiva il consueto allargamento degli organici a dimensioni elefantiache.
È alla nostra epoca, insomma – che ormai ha riportato in auge buona parte del teatro drammatico del compositore e che non è più vincolata all’immagine che voleva Händel grande solo per i suoi oratori – che spettano un più corretto approccio e una più meditata riflessione rispetto a questo capolavoro. Innanzitutto per Israel in Egypt si intendono oggi unanimemente le due parti Exodus e Moses’ song, private dell’anthem funebre come delle altre posteriori interpolazioni ed aggiunte. E tuttavia in questa veste l’oratorio non fu mai pensato dall’autore, che non avrebbe mai consentito che un suo lavoro si aprisse con un nudo recitativo (così infatti si apre l’Exodus); per ovviare a tale inconveniente si suole premettere all’Exodus una Sinfonia tratta da altri lavori.
Altro problema scottante è quello del ricorso a materiali preesistenti, anche di altri autori. Autoimprestiti sono quelli dalle fughe per clavicembalo, dal Dixit Dominus, dall’anthem The Lord my tight. Rispetto ai lavori di altri, Händel attinse in particolare ad Alessandro Stradella (la serenata “Qual prodigio”), Dionigi Erba (Magnificat), Francesco Antonio Urio (Te Deum), nonché J.K. Kerll e N.A. Strungk; così che su trentanove numeri della partitura, ben sedici devono qualcosa (e in qualche caso devono molto) a questi compositori. Una partitura come Israel in Egypt ha costituito, insomma, occasione di intimo diletto per i musicologi, impegnati ad identificare la provenienza di autoimprestiti e plagi, a ricostruire tassello per tassello il mosaico di citazioni che si intrecciano nella musica di Händel. Mosaico che, invece, interessa probabilmente assai poco il comune ascoltatore, il quale peraltro ha il diritto di stupirsi per la disinvoltura con cui il grande Händel impastava la farina del sacco altrui.
Per comprendere un simile comportamento occorre ricordare innanzitutto che l’unicità, l’irripetibilità dell’atto creativo è un concetto che appartiene all’estetica romantica – affermatosi attraverso l’ascesa economica del ceto borghese, il passaggio del compositore dallo stato di servo a quello di artista -, e attraverso questa è arrivato fino a noi; tuttavia tale concetto era del tutto ignoto ai contemporanei di Händel, che scrivevano non per la posterità ma per un consumo immediato che richiedeva serratissimi ritmi di produzione. Di qui il ricorso frequente all’autoimprestito, secondo una logica per la quale nulla che venisse creato e che fosse di buona qualità doveva andare “sprecato” in un’unica occasione. E tuttavia è innegabile che il plagio fosse avvertito come tale e fosse considerato riprovevole. A spiegazione della prassi si può osservare che essa era usualissima, che vi fecero ricorso moltissimi grandi contemporanei (Vivaldi incluso). A giustificazione di Händel deve essere ricordata la teoria di Edward Dent secondo la quale con la paralisi del 1737, e lo stato di prostrazione che ne seguì, il compositore avesse subito una flessione, per quanto temporanea, nella vena inventiva. Comunque sia, senza voler arrivare alle esagerazioni giustificatorie del compositore William Boyce, secondo il quale Händel «prese pietre e le convertì in diamanti», occorre convenire con le parole di Winton Dean, che «La “questione morale” dei prestiti händeliani avrebbe una portata significativa qualora si dimostrasse che la reputazione di Händel dipende da quel ch’egli ha preso agli altri; il che, palesemente, non si dà».
In particolare in Israel in Egypt diversamente devono essere valutati i plagi relativi agli spunti tematici – che subiscono poi una rielaborazione globale da parte del compositore – dai plagi testuali, che appaiono limitati. E comunque plagi e autoimprestiti ci aiutano per altri versi a comprendere la portata dell’invenzione del compositore. Ad esempio, nel duetto fra i due bassi (n. 22) i ritornelli orchestrali sono tratti da Erba e la linea vocale da Urio, ma il risultato è un brano del tutto nuovo, dotato di una sua fisionomia e dell’impronta inconfondibile dell’autore. Come dire che i materiali preesistenti vengono poi manipolati in vista di un progetto globale; ed è appunto tale progetto che ancora oggi stupisce e desta ammirazione.
Di fatto, nel percorso incerto e ricco di contraddizioni che condusse Händel dall’opera italiana alla fondazione del genere nazionale dell’oratorio, Israel in Egypt appare un’opera isolata, senza confronti. In seguito l’autore volse le spalle al modello austero che questo oratorio rappresentava, privo di un preciso filo narrativo e dominato dalla massa corale. Anche laddove – come nel Messiah – non seguì una consequenziale azione drammatica, agita da precisi personaggi, Händel non limitò la partecipazione e l’impegno dei solisti di canto. Si è visto, a proposito del nostro oratorio, come la probabile genesi come anthem religioso piuttosto che come oratorio profano edificante abbia avuto una influenza determinante nel risultato definitivo. Eppure Israel in Egypt si distacca anche dagli altri anthem celebrativi di Händel, perché la materia viva dell’episodio biblico narrato – l’esodo degli ebrei dall’Egitto – si presta a soluzioni di grande evidenza drammatica; il compositore volge dunque forme e stilemi del genere sacro verso implicazioni in qualche modo profane.
Questo è vero soprattutto nella prima delle due parti, l’Exodus, che narra degli ebrei oppressi, delle piaghe d’Egitto, dell’attraversamento del mar Rosso. È dominata, questa prima parte, dall’elemento corale, che riguarda tredici dei sedici numeri (gli altri tre consistono in due recitativi del tenore-narratore e in un’aria del contralto). Un contralto solo introduce il primo coro (n. 2), un doppio coro in cui scrittura omofonica e fugata si alternano nella descrizione del lutto del popolo d’Israele e nella invocazione. Dopo un coro fugato (n. 4) l’aria del contralto (n. 5) inizia a narrare le piaghe d’Egitto: l’invasione delle rane (con il ritmo “saltellato” dei violini) e la pestilenza. Nel doppio coro n. 6 troviamo la contrapposizione fra i perentori accordi “He spake the word” (“Egli disse le parole”) e la rapidissima figurazione che evoca il volo degli insetti. Negli staccati del doppio coro n. 7 si può riconoscere la caduta della grandine (entrambe queste pagine derivano da Stradella). Brusca la contrapposizione con il n. 8, il coro suggestivo che, con trapassi armonici, ambienta la piaga delle tenebre; mentre gli incisivi accenti del coro fugato n. 9 si riferiscono allo sterminio dei primogeniti. Il coro n. 10 tratta in stilemi pastorali la lietezza del popolo d’Israele. IL n. 11 è ancora un fugato che si espande progressivamente. Segue, negli ultimi cinque numeri, l’attraversamento del mar Rosso. Il brevissimo n. 12 è il perentorio ordine per l’apertura delle acque; il n. 13, un brillantissimo doppio coro, vede l’attraversamento del mare da parte degli ebrei; il n. 14 è un coro omofonico, percorso da incisive terzine e animato dai timpani, che ambienta la chiusura delle acque sugli egiziani. Il n. 15 è una breve introduzione al coro finale (n. 16), commossa attestazione di fede.
In Moses’ song, invece, i cori rimangono sempre in assoluta preminenza (15 numeri su 23), ma, accanto ai due recitativi (nn. 36 e 38), trovano spazio tre duetti (nn. 19, 22, 32) e tre arie (nn. 28, 29, 34). Si tratta di un lungo canto di gioia, un inno alla divinità. Il n. 17 introduce grandiosamente una complessa doppia fuga (n. 18) con effetti antifonari e descrittivi. Segue un duetto fra i due soprani (n. 19), ripreso da Erba e dunque forzatamente in stile arcaico. Il n. 20 è ancora una introduzione per il n. 21, una austera fuga a quattro voci. Un altro duetto è il n. 22, per due bassi, tratto, come si è detto, da Erba e Urio. I numeri 23-27 costituiscono una successione di cinque cori, fra loro diversificati: il primo è una pagina con effetti pittorici (le onde e la caduta dei corpi nel profondo); il n. 24 si basa su contrastanti effetti antifonali fra i due cori; il n. 25 introduce una maestosa fuga (n. 26); il n. 27 è nuovamente una pagina descrittiva (il “soffio” divino). Con i nn. 28 e 29 abbiamo due arie solistiche, per tenore e per soprano, che fanno ampie concessioni al virtuosismo degli interpreti. Il n. 30 introduce solennemente il seguente austero fugato in doppio coro. Le ultime pagine solistiche (il duetto contralto-tenore n. 32 e l’aria per contralto n. 34) incorniciano una pagina di somma efficacia, con il ritmo insistito degli archi che sostiene il timore dei popoli verso Dio e lascia spazio alla fine a suggestivi effetti figurativi. Con i cori gemelli nn. 35 e 37 (inframezzati e seguiti da un recitativo), pagine brevi e perentorie, inizia l’ultima sezione dell’oratorio. Il coro finale (n. 39) viene aperto dall’invocazione del soprano solista, amplificata grandiosamente dai due cori; riprende poi il materiale del n. 18, chiudendo con logica circolare e stringente l’inno di gioia che attraversa il Moses’ song e l’intero oratorio.
Arrigo Quattrocchi
Guida all’ascolto 2 (nota 2)
La composizione dell’Israel in Egypt fu intrapresa e portata a termine da Händel nell’ottobre del 1738. La paralisi che lo aveva colpito nel 1737, conseguenza e causa di rovinose vicende nell’impresa teatrale che si era assunto, non era lontana. Pure Händel non si era concesso alcuna tregua e nel 1738 aveva composto di seguito il Funeral Anthem per la regina Carolina, due opere, Faramondo e Serse, e un altro grande oratorio, Saul, terminato pochi giorni prima dell’inizio di Israel in Egypt.
Quest’ultimo fu anzi scritto apparentemente senza commissione e come atto di ringraziamento per la riacquistata salute. A conforto di tale tesi si possono portare diversi argomenti, tra cui l’insolita fedeltà del testo, elaborato dallo stesso compositore, alle fonti bibliche, e l’assoluta preponderanza corale. Lo stesso insuccesso cui andò incontro presso i contemporanei ha finito per conferire una specie di romantica aureola a questo oratorio, ribaltandone le sorti, per cui si può ritenere che Israel in Egypt sia oggi tra i lavori più amati ed eseguiti di Händel. È tuttavia sempre rischioso applicare criteri di estetica romantica e attribuire comportamenti, per così dire beethoveniani, ad un artista barocco e più ancora ad un Händel la cui pratica compositiva rispondeva in primo luogo a criteri di destinazione immediata. D’altra parte le vicende compositive dell’opera e il fatto che in essa Händel abbia usato in modo addirittura esasperato autoimprestiti e plagi, smentiscono, o per lo meno ridimensionano, certe suggestive interpretazioni. Né va dimenticato che la stessa scelta di dedicarsi all’oratorio era stata per Händel una conseguenza dell’impossibilità di perseguire ancora la carriera di operista, irta di trabocchetti economici cui, pur scaltro com’era, non era stato in grado di far fronte.
Quando Israel in Egypt fu presentato per la prima volta al pubblico, il 4 aprile 1739, constava di tre parti, una delle quali era mutuata proprio dal Funeral Anthem per la regina Carolina. Per ovviare all’insuccesso della prima sera, attribuito alla mancanza di arie, la replica fu abbreviata e inframmezzata da Songs (così l’annuncio su un giornale londinese). I songs consistevano in quattro arie, tre delle quali italiane, cantate dalla Francesina. Neanche così tuttavia l’oratorio ebbe successo, né lo ebbero due repliche dell’anno successivo ed esso fu dunque messo da parte. Solo una ventina di anni più tardi Händel lo riprese in mano e lo ripresentò nel 1757 e nel 1758. La prima parte, quella desunta dall’Anthem e che si intitolava “Lamentazione degli Israeliti sulla morte di Giuseppe”, fu definitivamente eliminata e sostituita da una versione abbreviata del primo atto di Solomon. Restarono le altre due parti, intitolate rispettivamente Exodus e Moses’ Song, che sono appunto quelle eseguite nelle moderne esecuzioni. Per evitare di iniziare con un recitativo e ovviare alla mancanza di ouverture si suol oggi attingere ad altri lavori, tra cui lo stesso Solomon. Ma nemmeno nella sua ultima veste l’oratorio piacque ai londinesi e Israel in Egypt restò tra i pertinaci insuccessi della carriera händeliana.
Per quanto riguarda il materiale utilizzato, le due parti superstiti attingono con una larghezza, quasi unica persino nel catalogo di Händel, a lavori di altri autori. Le opere più saccheggiate furono la serenata Qual prodigio di Stradella, un Magnificat del compositore milanese Dionigi Erba e un Te Deum di Francesco Antonio Urio (il lavoro di quest’ultimo era servito già in precedenza ad Händel per il cosiddetto Dettinger Te Deum e per alcuni brani del Saul). Non mancano nell’Israel altri prestiti da J.K. Kerll, e da N.A. Strungk. Inoltre, come al solito, Händel si servì di propri lavori precedenti (le Sei fughe per clavicembalo, un Dixit Dominus, l’anthem The Lord my light, ecc.). Il tutto viene a costituire una trama e un rompicapo musicologico che è impossibile districare in questa sede e che, in assoluto, lo sarà sempre, dato che nulla sappiamo di lavori ormai definitivamente dimenticati ai quali Händel può aver attinto.
Un problema, quello dei plagi, tutt’altro che facile per esegeti ed apologeti intenti a difendere Händel sul piano morale ed estetico. Sul piano morale la difesa si avvale di due argomenti che, in certo senso, si escludono a vicenda. Si afferma, dai primi, che Händel aveva tutto il diritto di comportarsi così, poiché, giusta l’affermazione di William Boyce, «egli prendeva le pietre e le trasformava in diamanti». Tale cinica o quanto meno disinvolta teoria, che anticipa quelle dei cultori dell’arte per l’arte, è smentita dal fatto che Händel di rado si serviva di sassi. Più spesso attingeva, è il caso di Stradella, a compositori di alto livello e a lavori che, per proprio conto, avevano notevolissimo valore artistico. Gli altri difensori “d’ufficio” invocano la prassi esecutiva barocca che consentiva o tollerava un certo tipo di operazioni. Si ricordano le trascrizioni da Vivaldi e da altri italiani di Bach (ma queste avevano tutt’altra destinazione e obbedivano a ben altre esigenze) e la pratica di altri autori coevi. Ora è ben vero che quello che oggi chiamiamo «diritto d’autore» era un concetto allora assai più elastico, anche per la pratica impossibilità di tutelarlo, ma è altrettanto innegabile che se ne aveva una chiara coscienza. Lo stesso Händel sfruttò l’accusa di plagio per liberarsi abilmente di alcuni rivali sulla piazza di Londra, primo tra tutti quel Giovanni Bononcini cui andavano i favori degli appassionati dell’opera italiana. Alla luce di questi elementi è ben difficile tentare una giustificazione etica e dare una patente di buona condotta che forse il Sassone non si sognerebbe di chiedere. Difficile anche considerare Händel intento a ringraziare la Divinità per la riacquistata salute esibendo doni desunti dall’altrui bagaglio. Meglio contentarsi di prendere i prestiti (alcune volte veri e propri ricalchi, e questi ovviamente sono quelli meno giustificati, altre volte oggetto di ripensamento e rielaborazione più o meno profonda) come parte di un insieme su cui il genio di Händel ha posto un suggello personale e a cui ha conferito un’indiscutibile unità. L’uno e l’altra in effetti rifulgono in modo smagliante proprio nell’Israel in Egypt.
L’attuale prima parte dell’oratorio, intitolata Exodus, attinge all’omonimo libro della Bibbia e ai Salmi 105 e 106 che agli episodi dell’Esodo sono ispirati. La preponderanza corale è qui pressoché assoluta: una sola aria, immersa, è il caso di dire, in una quindicina di episodi corali. Quasi assenti anche i semplici assoli. L’unico è quello di poche battute del contralto che, dopo il recitativo iniziale del tenore (n. 1), introduce austeramente un doppio coro in stile fugato (n. 2) in cui si ricorda il lamento degli Israeliti oppressi e la loro invocazione alla Divinità. Dopo un altro recitativo e un altro coro (nn. 3, 4) l’unica aria (n. 5), ancora per contralto, è dedicata alle prime due piaghe d’Egitto: l’invasione delle rane (il cui saltellare è evocato dal ritmo sincopato in 3/4) e il diffondersi della pestilenza. È una pagina breve e alquanto inadeguata, collocata com’è tra un coro a quattro parti e un altro doppio (n. 6). Quest’ultimo, preceduto dalla ripetuta esclamazione: «He spake the word», accompagnata da una fanfara di tre tromboni, è un brano di michelangiolesca possanza. Vi si citano la terza, la quarta e l’ottava piaga. È inoltre il primo numero mutuato da Stradella, dal quale deriva anche il coro che segue (n. 7), un concitato allegro che descrive con veemenza la caduta della grandine (settima piaga).
Dopo queste due pagine di sfolgorante sonorità l’oratorio tocca uno dei suoi culmini con la livida rievocazione della discesa delle tenebre (n. 8). Si apre con lente note ribattute e con passi omofoni del coro ma poi le voci si dividono e spezzano, come se si disperdessero in un labirinto. I numeri successivi (nn. 9, 10 e 11) costituiscono una specie di trittico con due allegri inframezzati da un andante. Il primo allegro si richiama alla decima piaga, la morte dei primogeniti, mentre l’andante descrive con toni pastorali la felicità del popolo di Israele guidato da Dio «come un gregge» e colmato di doni. Poi, sull’accompagnamento del solo organo inizia un allegro giusto, ancora in stile fugato, che va ampliandosi sempre più per celebrare con toni grandiosi la gioia degli Egizi per la partenza degli Ebrei. L’ultima parte dell’Exodus è dedicata all’attraversamento del Mar Rosso e fu, molto probabilmente, la prima composta. Si trattava, in effetti, di uno degli episodi biblici più cari agli autori degli oratori e lo stesso Händel lo menzionerà in altri lavori. Qui, tuttavia, esso occupa, come è ben comprensibile, un posto di assoluta preminenza. In apertura il coro enuncia due volte e in sole otto battute (n. 12) l’ordine divino impartito alle acque. Poi, su un pedale dei bassi, inizia una nuova fuga (n. 13) che descrive il felice attraversamento del mare da parte degli Ebrei. Rulli di timpani e rapidi passaggi ripetuti degli archi richiamano nel n. 14 la violenza dei flutti che travolgono gli inseguitori. Segue la celebrazione della potenza divina: su alcune battute solenni il coro (n. 15) intona: «Israele vide allora la potenza che il Signore aveva adoperato contro gli Egizi e temette il Signore…», poi la prima parte dell’oratorio si chiude con un’ultima solenne fuga sul versetto «credette a Lui e a Mosè suo servo».
La seconda parte, Moses’Song (Cantico di Mosè) attinge unicamente All’Exodus. Consta di 23 numeri. La preponderanza corale è mantenuta, ma vi sono un certo numero di arie e di duetti. L’lntroitus (n. 17) passa senza soluzione di continuità ad un’ampia fuga (n. 18). Il successivo duetto per soprano e contralto (n. 19) è accompagnato dal basso continuo e dai violini unisoni. È questo il primo passo ripreso dal Magnificat di Erba e si deve a questa origine la patina arcaica che conserva. Ancora una coppia di cori: il primo (n. 20), grave e di sole dieci battute trapassa subito in una duplice fuga (n. 21) sulla frase di acclamazione «And I will exalt him». Il duetto tra i due bassi (n. 22) è un ampio collage di Erba, cui Händel attinge per i ritornelli orchestrali, e di Urio, da cui mutua la linea vocale. Il testo rievoca ancora il miracolo del Mar Rosso che sommerge gli Egizi. L’ultimo versetto, «gli abissi li ricoprirono e andarono a fondo come pietre», inizia una nuova serie di numeri corali (nn. 23-27) in cui canti di lode e passi celebrativi si alternano ad altri più spiccatamente descrittivi. La discesa nei gorghi delle acque, ad esempio, e illustrata da linee melodiche discendenti, mentre sincopi e fitti passaggi di semicrome evocano nel n. 27 il soffio che, proveniente da Dio, solleva le onde e i marosi. Le due successive arie, per tenore (n. 28) e per soprano (n. 29), sono i primi e unici pezzi di bravura dell’oratorio e, anche se tipicamente händeliani, rappresentano pur sempre una deroga alla rigorosa cifra che il compositore aveva fin qui mantenuto. Un’altra coppia di cori, un grave (n. 30) e una fuga (n. 31) ci riporta nel giusto clima. La sezione che segue alterna momenti di distensione (il duetto soprano-tenore n. 32 e l’aria per contralto n. 34) ad altre perentorie affermazioni della grandezza divina. Soprattutto significativo l’ampio coro (n. 33) in cui si evoca lo spavento e il tremore di fronte alla potenza del braccio di Dio, davanti al quale i «popoli ammutoliscono come pietre».
L’ultima parte dell’oratorio inizia con la frase «The Lord shall reign for ever and ever» (n. 35), cui seguono altri passi corali inframmezzati da un recitativo del tenore. Infine il soprano rivolge per due volte l’invito a cantare il Signore e la composizione si chiude con un canto di lode che per la tonalità di do maggiore e per il materiale testuale e musicale si raccorda all’inizio del Moses’ Song. Ma tutto l’Israel in Egypt, trascendendo da ogni connotazione individualistica, può essere considerato un unico Triumphlied, espressione collettiva e non di un singolo personaggio. Questa unità di fondo giustifica largamente il sacrificio del virtuosismo, quel sacrificio che i contemporanei, pur trovandosi di fronte ad una celebrazione della divinità che rispondeva pur sempre agli ideali della grandiosità barocca, non seppero comprendere. A loro modo lo comprenderanno i romantici che, Schumann in testa, troveranno in Israel in Egypt un modello di religiosità popolare. Si trattava di un vero e proprio abbaglio, ma che fu comunque all’origine della ripresa di questo e di altri oratori händeliani. Forse oggi, rivalutati i canoni estetici del barocco e senza i gravami sentimentali dell’Ottocento, possiamo porci correttamente di fronte a questo capolavoro come ad una delle massime espressioni di quel culto della grandezza, dell’immaginoso, del fasto e della gloria che unisce il romano Gianlorenzo Bernini al sassone Händel, le manifestazioni regali del papato e dei sovrani assoluti a quelle, simboliche ed esemplari che, attingendo alle Sacre Scritture, alla Storia Sacra e ai modelli dell’antichità fecero fiorire, ad edificazione e monito, quel genere ad hoc che fu l’oratorio.
Bruno Cagli
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 30 aprile 1994
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 13 gennaio 2000
Ultimo aggiornamento 14 marzo 2015