Scene dal ‘Faust’ di Goethe

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Scene dal ‘Faust’ di Goethe (Szenen aus Goethes Faust), composto tra il 1844 e il 1853, è stato riconosciuto come una delle più alte realizzazioni della musica drammatica del compositore Robert Schumann. Si tratta di un oratorio profano tratto dalla ‘Faust’ di Johann Wolfgang von Goethe Iniziato una decina di anni dopo la morte del letterato tedesco, che completò la seconda parte del poema drammatico poco prima di morire. Molti lettori contemporanei del Faust trovavano il poema epico di Goethe arduo e difficile da afferrare. Schumann descrisse il peso del compito di fronte alui in una lettera 1845 a Felix Mendelssohn: “[Qualunque] compositore non potrà essere giudicato su una delle opere più acclamate nella letteratura tedesca, ma sarà anche posto a paragone con Mozart”. Quest’ultima dichiarazione del musicista è dovuta al fatto che lo stesso Goethe dichiarò che solo Mozart avrebbe saputo scrivere bene la musica per questo lavoro (anche se Mozart era morto nel 1791).

Schumann lavorò a lungo su quest’opera e iniziò a scrivere dalla parte conclusiva dell’opera letterariain quello che poi diverrà la terza parte dell’opera. Inseguito la composizione procedette a ritroso rispetto alla storia sino all’ouverture.

 

Bach: Matthaus Passion

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Matthäus-Passion (Passione secondo Matteo), BWV 244

per soli, doppio coro e doppia orchestra

Musica: Johann Sebastian Bach
Testo: Picander (Christian Friedrich Henrici)
Occasione: Venerdì Santo
Organico:

  • Interpreti: 2 soprani, contralto, tenore, 2 bassi, coro misto, 2 cori misti
  • Orchestra I: 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 oboi d’amore, 2 oboi da caccia, 2 violini, viola, viola da gamba, continuo (violoncello, violone), organo
  • Orchestra II: 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 oboi d’amore, 2 oboi da caccia, continuo (violoncello, violone), organo, clavicembalo

Composizione: 1727 (revisione 1736)
Prima esecuzione: Lipsia, Thomaskirche, 11 aprile 1727
Edizione: Schlesinger, Berlino, 1830

 

Guida all’ascolto.

Non sono passati nemmeno duecent’anni dal momento in cui, grazie all’iniziativa di Zelter e del suo allievo Felix Mendelssohn, la Passione secondo Matteo di Bach venne tratta fuori dall’oblio in cui era caduta e riconsegnata al patrimonio della nostra cultura musicale. Dal giorno della sua esecuzione a Berlino, 11 marzo 1829, essa è diventata l’opera forse più amata e celebrata fra quelle di Bach che ci sono pervenute. Non è solo una questione di qualità musicale: vi sono infatti Cantate nelle quali l’inventiva e il coraggio sperimentale dell’autore sono di gran lunga superiore. E non è neppure un problema di aderenza fra l’espressione musicale e il contenuto teologico del racconto cristiano: la Passione secondo Giovanni è da questo punto di vista più rigorosa e sottile. Ciò che le ha conferito un innegabile primato è piuttosto la sua evidenza espressiva, come pure la piena visibilità di quelle corrispondenze fra testo e musica che altrove vengono sublimate sotto una superficie di simbolismi difficili da decifrare. Spesso il linguaggio della Passione secondo Matteo è stato definito “teatrale”. Si è sottolineato ad esempio come nell’alternanza fra corali e arie, cori e recitativi, essa introduca nel racconto evangelico le pieghe emotive di un dramma barocco, dando evidenza rappresentativa ai gesti che la musica accompagna: la concitazione della folla, le lacrime dei fedeli nelle arie di preghiera sui versi liberi del canto da chiesa (Kirchen-lied), il pentimento di Pietro, il lutto di Giuseppe di Arimatea. In primo piano, come si vede, sarebbero quei sentimenti umani che il racconto sacro lascia relativamente ai margini e che la musica richiama invece al centro della scena facendone occasione di meditazione.

La forza espressiva della Passione secondo Matteo sta dunque in un rovesciamento di prospettiva rispetto alla tradizionale narrazione della storia sacra. La voce dell’Evangelista racconta gli eventi in modo apparentemente distaccato, ma le arie, i corali e i cori manifestano meglio il coinvolgimento dei fedeli nel pieno di una vicenda nella quale compaiono sia come vittime che come carnefici. Più che la dimensione teologica legata alla questione del “sacrificio”, a toccarci è piuttosto quella umana e troppo umana della “ingiuria”, centro focale della composizione bachiana. Il sacrificio, insegna la teologia, non contraddice l’onnipotenza divina, ma è necessario al disegno della salvezza. D’altra parte, per un’epoca dalla coscienza religiosa così radicata com’era quella di Bach, il racconto di un Dio ingiuriato, flagellato, crocifisso, abbandonato persinO dal Padre, rappresentava un autentico rovello tragico. La vicenda che Bach racconta nella Passione secondo Matteo si concentra su questa componente umana ed è perciò la storia di un Dio indebolito e deriso, è la storia di un naufragio che ci comprende tutti, perché l’intenzione divina viene messa a morte per colpa di quello stesso mondo che essa intende salvare. All’altro capo dell’esperienza dell’ingiuria e della colpa sta la virtù redentrice della pietà, sentimento che nella Passione secondo Matteo è ben più importante di quanto non sia nelle altre Passioni bachiane: è una pietà vista come virtù reattiva, come un bisogno di preghiera che segue alla meraviglia per questo Dio dei naufraghi che non salva se stesso dalla Croce, ma chiede di essere salvato dal cuore stesso dei fedeli davanti ai quali si immola. Quando provò a interpretare il contrasto tra l’onnipotenza divina e la sua sconfitta con la crocifissione, Dostoevskij disse che il sacrificio di Cristo aveva restituito all’uomo il più pericoloso dei suoi beni, la libertà, e insieme ad esso il più ampio dei suoi doveri, la responsabilità. Ora, se nel disegno divino vi fosse solo necessità, come insegna la teologia della croce e come conferma la Passione secondo Giovanni, non vi sarebbe alcuna responsabilità nell’ingiuria, nella libertà esercitata contro Dio. Ma se una responsabilità c’è, come Bach indica evidentemente nella Passione secondo Matteo, vuol dire che anche il disegno divino non è del tutto costrittivo, che l’uomo può evitare il peccato e fare del suo cuore un luogo capace di accogliere Dio. La letteratura mistica tedesca avrebbe protestato contro questa volontà, tacciandola ancora di ambizione. Più semplicemente, Bach si rifà alla tradizione protestante che fa del cuore del fedele il luogo in cui Dio deve essere salvaguardato e della musica fa l’esempio della comunicazione “da cuore a cuore”, come appunto vuole essere la Passione secondo Matteo.

 

Catalani: Loreley

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Loreley è un’opera lirica di Alfredo Catalani su libretto di Carlo d’Ormeville e Angelo Zanardini.

Trattasi del rifacimento di un’opera precedente, Elda, che aveva debuttato nel 1880. La partitura venne composta in un arco di tempo abbastanza breve (1886-87), ma rimase a lungo ineseguita a causa dello scarso interesse di Giulio Ricordi. La prima assoluta, infatti, si ebbe solamente il 17 febbraio 1890, al Teatro Regio di Torino, grazie all’appoggio di Giuseppe Depanis, amico di Catalani e direttore del teatro sabaudo.
La prima interprete di Loreley fu il soprano Virginia Ferni Germano.

Il successo fu sincero, anche se la critica definì troppo malinconica la musica del lucchese.

 

Monteverdi: Tancredi e Clorinda

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Capolavoro della produzione monteverdiana, “Il combattimento di Tancredi e Clorinda” segna un nuovo e importante capitolo nella storia della musica. Monteverdi, che già ha esperienza con il melodramma, l’Orfeo è del 1607, alla polifonia contrappuntistica franco-fiamminga contrapporre una “seconda prattica” musicale, nella quale il canto imita gli accenti della lingua e la musica, con i suoi ritmi e le sue melodie, traduce e accentua le emozioni suscitate dal testo rappresentato (teoria deglia affetti).
Il madrigale, composto sul testo della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, canto XII versi 52-62 e 64-68, riprende la vicenda del cavaliere cristiano Tancredi, innamorato di Clorinda, guerriera musulmana, costretto dalla sorte a battersi in duello proprio con lei e ad ucciderla. In punto di morte Clorinda si converte e, battezzata da Tancredi, affronta serenamente il trapasso.
L’organico strumentale prevede due violini, una viola da braccio e il basso continuo; le parti vocali sono per soprano, Clorinda, e per due tenori, il Testo (narratore) e Tancredi. Le voci non sono mai sovrapposte, i versi sono cantati in ordinata successione; la musica si adegua alla parola, anche nel sottolineare gli interventi del narratore. Gli strumenti, poi, non hanno soltanto un ruolo di semplice accompagnamento ma diventano protagonisti, come nell’episodio del combattimento in cui, la concitazione e l’ansia dei duellanti sono evidenziate, per la prima volta, dal tremolo degli archi.
Monteverdi esprime due passioni contrarie: da una parte l’ira e lo sdegno,  dall’altra la preghiera dolente e la rassegnazione; passaggi melodici ampi e pacati si alternano a momenti di intenso turbamento, sottolineati da note ribattute, da ritmi puntati e da contrattempi.
Il Combattimento di Tancredi e Clorinda viene eseguito per la prima volta durante le feste di carnevale del 1624, a Venezia in casa Mocenigo; la sua pubblicazione è del 1638 nell’Ottavo Libro di “Madrigali guerrieri et amorosi”, nella cui prefazione Monteverdi descrive dettagliamente le modalità della rappresentazione scenica:

Il basso continuo introduce il recitativo con la presentazione dei personaggi (Tancredi che Clorinda un homo stima… ); una breve figurazione degli archi descrive il vagare di Clorinda. L’improvviso ritmo sempre più serrato imita il trotto del cavallo sul quale giunge Tancredi. Figure strumentali della tromba e rullo di tamburi alludono all’imminente battaglia, preceduta da una sinfonia che introduce l’invocazione alla notte, affidata al Testo col solo sostegno del basso continuo. La descrizione del combattimento inizia piano, “non schivar”, “non parar”, poi in crescendo con figure ritmiche sempre più evidenti; rapide scale ascendenti e discendenti e il tremolo degli archi suggellano l’apice della tensione fino al punto di rottura (… Qui si lascia l’arco, e si strappano le corde con duoi diti …), che corrisponde esattamente al momento in cui i duellanti lasciata la spada “dansi con pomi e infeloniti e crudi/ Cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi”. Ecco una pausa, è l’alba; il narratore è sostenuto dal solo basso continuo, che accompagna anche il successivo dialogo tra Tancredi e Clorinda. Tancredi chiede al cavaliere di rivelare il suo nome; Clorinda nega la sua identità e la lotta riprende violenta e improvvisa (Torna l’ira nei cori e li trasporta), così come testo e musica cambiano all’improvviso sui versi “Ma ecco homai l’hora fatal è giunta/ ch’el viver di Clorinda al suo fin deve”. Clorinda è ferita a morte, a tratti ritornano gli archi, Clorinda si dichiara vinta. La declamazione del Testo (In queste voci languide… ) è partecipazione della tragedia che si sta compiendo: Tancredi riconosce Clorinda. Gli archi ritornano alla fine, sulle ultime parole di Clorinda: “S’apre il ciel io vado in pace”.

 

Rossini: La cambiale di matrimonio

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Scarica qui La cambiale di matrimonio di Rossini

La cambiale di matrimonio è una farsa musicata da Gioachino Rossini diciottenne. Venne rappresentata per la prima volta al Teatro San Moisè di Venezia il 3 novembre 1810. Non è la prima opera che il compositore pesarese scrisse (che fu invece il Demetrio e Polibio, composta nel 1806, poi completata e rappresentata a Roma nel 1812), ma fu la prima ad essere messa in scena.

Rossini la compose su libretto di Gaetano Rossi ricavato dall’omonimo dramma di Camillo Federici – quando era appena diciottenne.
Gli interpreti alla prima rappresentazione, nella quale Rossini sedette come “Maestro al Cembalo”, furono Domenico Remolini nella parte di Norton, Clementina Lanari in quella di Clarina, Luigi Raffanelli come Tobia Mill, Tommaso Ricci (Edoardo), Rosa Morandi (Fanny) e Nicola De Grecis nel ruolo di Slook.

Al Teatro La Fenice di Venezia la prima è stata nel 1910.

Nel Regno Unito la première è stata nel 1954 al Sadler’s Wells Theatre di Londra.

Nel 1984 avvengono le première a Perth, Ayr (Scozia), Stirling, Dundee, Dunfermline ed Inverness nella traduzione di Elizabeth Parry per la Scottish Opera.

La prima rappresentazione al Rossini Opera Festival avviene nel 1991 diretta da Donato Renzetti con l’Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, Enzo Dara, Luca Canonici e Roberto Frontali (con successive repliche nel 1995 e nel 2006).

Rossini: L’ occasione fa il ladro

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Scarica qui L’occasione fa il ladro di Rossini

GIOACCHINO ROSSINI

L’OCCASIONE FA IL LADRO

Burletta per musica in un atto.

Prima rappresentazione:

Venezia, Teatro San Moisè, 24 XI 1812

Composta, a quanto pare, in soli undici giorni,

L’occasione fa il ladro

è la quarta delle cinque farse in un atto che Rossini compose tra il1810 ed il 1813 per il Teatro San Moisè e che costituiscono un passo fondamentale nella definizione del suo stile comico.In particolare, in questa farsa come nel successivo Signor Bruschino posteriore di poche settimane, Rossini poté giovarsi dell’esperienza accumulata con la più complessa drammaturgia della Pietra del paragone, l’opera che in quello stesso anno aveva segnato il suo debutto al Teatro alla Scala di Milano. L’occasione fa il ladro, unica fra le farse veneziane a non essere aperta da una sinfonia – la situazione scenica indusse Rossini ad aprire l’opera con un temporale, preso a prestito dalla Pietra del paragone, preceduto da un suggestivo preludietto che ne acuisce l’effetto coloristico -rappresenta, insieme al Signor Bruschino, il miglior esito di Rossini in questo genere, che avrebbe di lì a poco abbandonato definitivamente. La definizione dei personaggi e delle situazioni evidenzia già il magistrale tratto di un compositore che dopo pochi mesi avrebbe creato quel capolavoro del teatro comico che è Italiana in Algeri

LA TRAMA

La vicenda è basata su un topos dell’opera comica: lo scambio dipersona, in questo caso doppio ed incrociato. Don Parmenione ed il conte Alberto, che si sono riparati da un temporale in una locanda, sono alla ricerca di due donne: il primo cerca la figlia di un amico, fuggita con un amante; il secondo è in viaggioverso la donna che il padre, in punto di morte, gli ha destinato, la marchesa Berenice. Nel ripartire dalla locanda, i due si scambiano casualmente le valigie:Don Parmenione, aperta la valigia del conte, vi trova il ritratto di una bellissima donna, che ritiene essere la marchesa (si scoprirà soltanto allafine dell’opera che il ritratto era in realtà quello della sorella del conte):affascinato, decide di sostituirsi ad Alberto.La scena si trasferisce poi nella casa di Berenice, che, per essere certa delle buone intenzioni del promesso sposo, chiede all’amica Ernestina,sua ospite, di assumere la sua identità, fingendo nel contempo di essere una cameriera. Alberto si innamora di Berenice nonostante la sua apparente condizione di cameriera, mentre Parmenione si invaghisce di Ernestina, la quale altri non è che la giovane fuggita dal padre che Parmenione stava cercando:abbandonata dall’amante, accetta la proposta di matrimonio di Parmenione.

Il lieto fine è assicurato per entrambe le coppie

 

 

Rossini: La scala di seta

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Scarica qui La scala di seta di Rossini

 

La scala di seta è un’opera lirica di Gioachino Rossini

Il libretto, denominato farsa comica in un atto, è di Giuseppe Maria Foppa, che aveva già scritto per Rossini L’inganno felice e scriverà ancora Il signor Bruschino.

L’operina appartiene al gruppo di cinque farse che Rossini scrisse per il Teatro San Moisè di Venezia (le altre, oltre alle due citate sopra, sono La cambiale di matrimonio e L’occasione fa il ladro).

La scala di seta andò in scena il 9 maggio 1812 con discreto successo, ma dopo un limitato numero di repliche e di riprese in teatri minori scomparve totalmente dal repertorio, per essere ripresa soltanto nel secondo Dopoguerra. La sinfonia dell’opera, invece, rimase un pezzo molto frequentato del repertorio sinfonico.

Il 24 gennaio 1825 avviene la prima nel Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona.

Nel 1952 avviene la prima nel Teatro Comunale di Firenze con Nicola Monti, Renato Capecchi e Franco Calabrese.

Nel Regno Unito la première è stata nel 1954 al Sadler’s Wells Theatre di Londra.

Alla Piccola Scala di Milano la prima è stata nel 1961 diretta da Bruno Bartoletti con Graziella Sciutti, Cecilia Fusco, Angelo Mercuriali, Luigi Alva, Sesto Bruscantini e Calabrese.

Nel 1984 avvengono le première a Perth, Ayr (Scozia), Stirling, Dundee, Dunfermline ed Inverness nella traduzione di Geoffrey Dunn per la Scottish Opera.

La prima rappresentazione al Rossini Opera Festival avviene nel 1988 con Oslavio Di Credico, Luciana Serra, Cecilia Bartoli, William Matteuzzi, Natale De Carolis e Roberto Coviello e verrà replicata per altre cinque stagioni (1990, 1992, 2000, 2009 e 2011).

Nel 1992 va in scena allo Sferisterio di Macerata ed al Théâtre national de l’Opéra-Comique di Parigi.

Per il Teatro La Fenice di Venezia la prima avviene nel 2002 al Teatro Malibran con Rockwell Blake.