Telemann: Il giorno del giudizio

 

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Andrea Milanesi domenica 26 giugno 2011

«Telemann scrive un mottetto a otto voci con la stessa facilità e velocità con cui normalmente si scrive una lettera…»: con sincera ammirazione, magari un pizzico d’invidia e anche una venatura di biasimo, in questi termini il sommo Händel ha voluto immortalare l’estro e la prolificità dell’illustre collega. D’altronde i numeri della produzione creativa di Georg Philipp Telemann (1681-1767) non hanno forse eguali nell’intera storia della musica: durante la sua lunga e fortunata carriera l’artista ha affidato al pentagramma qualcosa come oltre 3.300 composizioni, sacre e profane, vocali e strumentali.
Protagonista assoluto della vita culturale tedesca per gran parte del XVIII secolo, fu amico di Johann Sebastian Bach e ricoprì importanti cariche nelle sedi istituzionali più prestigiose. Instancabile lavoratore, con l’oratorio Der Tag des Gerichts (Il Giorno del Giudizio, 1762) portò a termine uno dei suoi ultimi lavori, forse il più “händeliano” per stile e linguaggio; a 81 anni compiuti Telemann dimostrò comunque di mantenere ancora intatte una lucidità e una profondità di pensiero che gli hanno permesso di dare vita a un’opera di ampio respiro e grandiosa concezione.
Ed è con un’appropriata e sontuosa veste sonora che ce lo restituisce l’esecuzione offerta dal Bach Consort di Lipsia sotto la bacchetta di Gotthold Schwarz (cd pubblicato da Rondeau e distribuito da Codaex); la composizione è suddivisa in quattro cantate separate (denominate «contemplazioni») e ai cantanti solisti spetta il compito di impersonare i diversi ruoli allegorici e le figure di primo piano presenti nel libretto (da Fede e Ragione a San Giovanni e Gesù).
Il talento descrittivo e la naturalezza espressiva con cui l’autore tratteggia gli scenari apocalittici evocati dal testo accompagnano l’ascoltatore lungo tutto lo svolgimento dell’oratorio e al termine di una sequenza incalzante di recitativi, arie di tempesta e inni di giubilo, i due cori finali (intonati rispettivamente dalle Anime dei Beati e dalle Creature celesti) vengono contrappuntati dai vigorosi interventi di trombe, corni e timpani: il biglietto da visita con cui il saggio e timorato Telemann sembra congedarsi dalle pene terrene per presentarsi al cospetto del “Giudice supremo”.

 

Donizetti: Lucrezia Borgia

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Lucrezia Borgia è un’oper in un prologo e due atti composta da Gaetano Donizetti tra l’ottobre e il dicembre del 1833, su libretto di Felice Romani, tratto dall’omonima tragedia di Victor Hugo (1833).

La prima rappresentazione dell’opera inaugurò la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milsno il 26 dicembre 1833. Il cast diretto da Eugenio Cavallini comprendeva Henriette Méric-Lalande, nei panni della protagonista, Marietta Brambilla, Francesco Pedrazzi, Luciano Mariani.

Donizetti apportò modifiche alla partitura fino al 1840, inserendo nuove arie per i tenori Nikolaj Ivanov e Mario.

Pur essendo stata regolarmente rappresentata sia nel XIX che nel XX secolo, è entrata stabilmente nel cosiddetto repertorio solo dopo la ripresa del 24 aprile 1933 nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino.

Per Lucrezia, Donizetti scrisse due finali differenti; oggi vengono spesso eseguiti entrambi. Uno è l’aria del tenore “Madre se ognor lontano” e l’altro la cabaletta di Lucrezia “Era desso il figlio mio”, che richiede al soprano un’ottima coloratura.

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Mahler: Sinfonia numero 10

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Il completamento della Decima Sinfonia di Gustav Mahler è un affascinante percorso del Novecento in musica, come se l’estremo lascito incompiuto del grande compositore abbia avuto una prosecuzione fino quasi ai giorni nostri, tanti sono stati i tentativi, tutti discussi, di intervento sulla partitura interrotta dalla morte del compositore.

Un insieme di vicende che vedono coinvolti Alma Mahler, musicisti, musicologi tra i quali Deryck Cooke e i direttori che hanno accettato questa o quella versione: un pezzo del Novecento musicale che addirittura per decenni gira attorno all’ultima fatica di Mahler, che è e rimane l’enigma del grande compositore austriaco di origine boema, nonostante i tentativi di completamento.
Al 1924 risale la prima revisione di Krenek, che con pochissimi interventi rese eseguibile anche il terzo movimento (il primo era pressochè completato). La vedova di Mahler, Alma (che morirà addirittura nel 1964, dopo successivi matrimoni con Walter Gropius e con lo scrittore Franz Werfel, ed una vita sentimentale piuttosto movimentata che la portò fra l’altro ad essere anche l’amante di Oskar Kokoschka) dopo rifiuti e ripensamenti, pare che abbia dato il suo benestare alla prima versione redatta da Cooke; il musicologo inglese successivamente ne approntò altre, l’ultima delle quali è ormai un punto di riferimento autorevolissimo e che forse si può cominciare a considerare l’edizione definitiva della Decima Sinfonia, nonostante alcuni tentativi di completamento anche da parte di altri musicologi.
Il normale fruitore di musica però si limita ad ascoltare quello che viene eseguito, lasciando agli specialisti l’analisi dettagliata degli interventi sul testo. Ciò non toglie che questa sinfonia nel suo complesso non sembra raggiungere le vette di altre, e ciò nonostante che il primo movimento (completamente autografo) sia una delle più profonde, tormentate e angoscianti pagine mahleriane.
Anche Daniel Harding per questo disco sceglie l’ultima versione che fu pubblicata nel 1989, dopo la morte di Cooke; nell’opera definitiva del revisore la struttura della sinfonia è in cinque movimenti di durata assai variabile: il primo e l’ultimo hanno una durata quasi monumentale di circa venticinque minuti ciascuno (l’Adagio iniziale è comunemente eseguito anche da direttori che si limitano ad eseguire quello che Mahler ha effettivamente completato), mentre il brevissimo terzo tempo (Purgatorio) dura poco più di quattro minuti. La cosa è un’eccezione nella produzione mahleriana, con i tempi delle sinfonie che prediligono durate notevoli e che anche per questo motivo richedono grande attenzione da parte dell’ascoltatore.
Il primo e l’ultimo movimento lenti incorniciano i due scherzi, che quasi inglobano al loro interno il terzo tempo, in una struttura speculare di grande fascino. Harding affronta l’impegnativa partitura dall’alto dei suoi trent’anni, ma da direttore navigato qual è nonostante la giovane età, e soprattutto da direttore non più emergente ma ormai splendida certezza nel panorama internazionale. Il suo Mahler è lucido e luminoso, e i Wiener Philharmoniker si dimostrano ancora una volta una compagine estremamente duttile che però non abdica mai a quelle che si possono considerare le caratteristiche fondanti più volte ribadite nella sua lunghissima storia, quasi duecentennale: il suono personalissimo per così dire “viennese” che, nonostante le personalità dei vari direttori cui l’orchestra si affida, è quasi un marchio di fabbrica riconoscibile ed inimitabile.
Gli archi hanno una precisione ed una intensità straordinaria, splendidi i fiati, miracolosi certi attacchi in pianissimo, dettagli di assoluta perfezione strumentale ed estrema morbidezza, virtuosismo orchestrale sensazionale: si direbbe l’orchestra ideale per il Mahler di Harding, lucidamente novecentesco ma non senza anima, anzi a suo modo modernamente angosciante e con i contrasti che trovano quasi una composizione nell’apparente distacco con il quale il direttore esegue certe pagine. Aspettiamo altre entusiasmanti conferme mahleriane, magari con sinfonie (alcune altre sono già nel repertorio del direttore) più complesse e dalle quali già fin da ora ci attendiamo moltissimo.
Fabio Bardelli