Brahms Requiem Tedesco

Scarica qui il requiem tedesco di Brahms

Ein deutsches Requiem (noto in Italia come Requiem tedesco) è un’opera sacra di Johannes Brahms. Completato nel 1868, è un lavoro sinfonico corale polifonico. Rese noto il compositore tedesco, allora trentacinquenne.

Non si tratta di un requiem in senso propriamente liturgico, e non ha una diretta relazione con le messe funebri in latino come quelle di Mozart o Verdi. Si tratta infatti di un’opera concepita essenzialmente per le rappresentazioni concertistiche. Questa funzione si rispecchia indirettamente nel testo, che è di forma abbastanza libera. Brahms infatti non usò il testo latino prescritto dalla chiesa per composizioni da requiem: egli stesso compose un libretto scegliendo minuziosamente tra i testi della Bibbia in tedesco, nella versione di Martin Lutero. Il concetto di fondo portato avanti da Brahms era comunque di natura più filosofica che politica: le persone cui portare aiuto e consolazione non erano i morti, ma i vivi. [1] Il tono di pace e consolazione, peraltro, è chiaramente percepibile sin dalle prime battute dell’opera e che rimane tale anche nell’ultimo brano, durante il quale riecheggia il primo numero e porta a compimento, quasi ciclicamente, il lavoro. La morte dell’amico Robert Schumann nel luglio del 1856 e della madre di Brahms nel febbraio del 1865 dovrebbero aver dato la spinta decisiva per la composizione di questa opera, malgrado Brahms pianificasse da tempo un lavoro del genere. V’è da dire che il brano per soprano solo e coro „Ihr habt nun Traurigkeit“ fu aggiunto dal compositore in un secondo momento, proprio dopo la morte della madre. [2] Johannes Herbeck diresse i primi tre movimenti a Vienna il 1° dicembre 1867. La rappresentazione fu aspramente criticata. Tuttavia, il venerdì santo del 1868, una versione più completa fu rappresentata nella cattedrale di Brema: il successo significò una svolta decisiva nella carriera di Brahms.[3]

Johannes Brahms (Amburgo 1833 – Vienna 1897) aveva trentacinque anni quando, il 10 aprile del 1868, Ein deutsches Requiem (Un requiem tedesco) per soli coro e orchestra riscosse un grande successo alla prima esecuzione, avvenuta nel duomo di Brema.

Il musicista era già abbastanza noto, aveva già ampiamente confermato quanto fosse illuminato il giudizio di Robert Schumann che, quando aveva solo vent’anni, gli aveva procurato con un celebre articolo il più formidabile e autorevole lancio pubblicitario che mai giovane musicista abbia avuto.

Eppure solo a partire da questo Requiem tedesco, a una età relativamente matura, la sua fama viene irrevocabilmente consacrata. Prima di allora per lo più Brahms aveva rinviato l’impegno di un’opera sinfonica o sinfonico-corale di grandi dimensioni, aveva aggirato il confronto con questo aspetto cruciale della grande tradizione musicale che l’aveva preceduto. Non chiarì mai l’occasione che diede vita al lavoro: la morte di Schumann, o forse la morte della madre, avvenuta nel 1865; certo è che giunse all’appuntamento con piena consapevolezza sia dell’eredità musicale e culturale che lo precedeva, sia della propria autonoma capacità di reinterpretarla.

Era un’epoca in cui, come scrive il musicologo C. Dahlhaus, “non si poteva più capire se scrivere una Messa da concerto volesse dire trasformare la sala da concerto in una chiesa o la Messa in un pezzo da concerto”; Brahms coglie lo spirito del tempo e, nell’aggiungere la propria alla serie gloriosa della Messe da requiem del passato, evita di rifarsi alla liturgia, di tradizione cattolica, della Missa pro defunctis: forte della conoscenza diretta dei testi biblici, tipica della cultura tedesca protestante, è in grado di allestire una scelta del tutto personale, non confessionale, di brani dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Ciò gli permette di dar voce, sia pure attraverso la Bibbia, a una sua peculiare riflessione sulla morte, sospesa nel confronto fra la fragilità della vita umana e l’idea di pace, di riposo eterno: un confronto volutamente irrisolto nel quale sostanzialmente non appare la figura mediatrice di un Redentore divino.

Dal punto di vista musicale poi, è chiara qui la consapevolezza da parte di Brahms di essere il depositario di una (o piuttosto della) tradizione centrale della musica colta europea: quella che dall’età barocca di Bach e Haendel egli sentiva esser giunta, attraverso Beethoven e i romantici, fino a lui, senza sostanziale soluzione di continuità. Siamo al culmine della civiltà musicale tedesca.

Perché uno scrittore argentino (ma totalmente intriso di cultura letteraria e filosofica europea), maestro del genere “fantastico”, scrive nei tardi anni Quaranta un racconto intitolato Deutsches requiem (cioè Requiem tedesco), riprendendo esplicitamente il titolo del capolavoro brahmsiano?

Nell’ Epilogo della raccolta L’Aleph – uscita a Buenos Aires nel 1949 – Jorges Luis Borges presentando brevemente alcuni dei racconti che la compongono scrive tra l’altro: “Durante l’ultima guerra nessuno ha potuto desiderare più di me che la Germania fosse sconfitta; nessuno ha potuto sentire più di me la tragedia del destino tedesco; Deutsches requiem vuole intendere tale destino […]”.

Vediamo di che si tratta. Tipica del fantastico borgesiano è la contaminazione fra la saggistica e la letteratura di finzione, il ricorso all’apocrifo, alla simulazione dell’erudizione. Qui l’artificio è quello del finto manoscritto.

Si immagina di rendere noto un manoscritto appunto – con tanto di note attribuite ad un presunto “editore tedesco”- in cui narra in prima persona la propria vicenda Otto Dietrich zur Linde, nato a Marienburg nel 1908. E’ la vigilia della sua fucilazione in quanto “torturatore e assassino”. “Fin dal principio, io mi sono dichiarato colpevole”, chiarisce il protagonista, riconoscendo la rettitudine del tribunale, e narra per sommi capi la propria storia. E’ la storia di un uomo che ha vissuto profondamente la cultura del suo paese: la grande musica e la filosofia sono state le sue passioni, Brahms e Schopenhauer i suoi “benefattori”; il superuomo di Nietzche e l’idea del tramonto dell’occidente di Spengler entrano nella sua vita alla fine degli anni Venti.

Non molti anni dopo, a fianco di camerati che pure individualmente gli paiono odiosi, si sente alle soglie di un tempo nuovo, entusiasmante, che esige uomini nuovi; mutilato, e inetto perciò a combattere, diventa nel ’41 direttore di un lager, dove mette alla prova la sua vittoria contro un vizio dell’uomo vecchio, la pietà. Giunta la catastrofe per il suo paese avverte, inatteso, “il misterioso e quasi terribile sapore della felicità”, perché sente a questo punto la fine, la morte di tutto il suo mondo come un fatto necessario, un destino.

Tutta la storia tedesca (anche la migliore, anche Brahms…) porta la Germania al punto in cui l’aprirsi di un mondo nuovo, quale che sia, richiede il suo sacrificio, la sua morte. Questo dunque è il Requiem tedesco.

FRANCO BERGAMASCO


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